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sabato 2 settembre 2017

VI Biennale d'Arte Murale "Casoli Pinta". Il testo critico


il bello della vita è proprio l'imperfezione, il marchio della diversità, la ricchezza dei tratti originali che sfuggono al grigiore delle convenzioni... (Maurizio De Giovanni)

Una Biennale, lo dice la parola stessa, è una manifestazione che si ripete con scadenza regolare: due anni. Questo fa supporre che terminata una edizione, ci si appresti a organizzare quella successiva avendo di fronte lo stesso spazio temporale durante il quale conoscere, incontrare, scegliere, proporre, invitare artisti. Il tempo dato per questa VI edizione di Casoli Pinta, è stato invece di due mesi e, considerato agosto notoriamente dedicato a tutto fuorché al lavoro, ciò che abbiamo avuto a disposizione può essere racchiuso nel pugno di una mano; riassumendo, un po' di giorni.
Nonostante tutto, avendo le idee abbastanza chiare su quali passi muovere e quali contatti prendere, il lavoro è stato frenetico sì ma anche estremamente appagante e, aspetto più importante, coerente con la nostra linea di pensiero.
In fondo, abbiamo messo in pratica quello che è diventato da qualche tempo un chiodo fisso, una elaborazione culturale che possiamo riassumere in una serie di domande: come si muove l'Arte Contemporanea oggi, quali tratti comuni possono essere presi in considerazione per continuare a parlarne senza voltarsi indietro e senza attualizzare un passato nobile, per carità, ma sempre passato. E, infine, che valore dare al tratto imperfetto figlio di un cuore che batte e che senso dare, invece, alla pseudo-perfezione derivante da un puro astratto scolastico? Prendiamo come esempio (altrettanto nobile) la musica. Quasi tutti i musicisti studiano e si diplomano al Conservatorio. Sono pochi quelli che non lo fanno e riescono comunque a raggiungere vette inarrivabili, in Italia forse un paio, Luciano Pavarotti e Lucio Dalla. Ebbene, i musicisti che escono dal Conservatorio, al 99 per cento sono bravi, ottimi strumentisti in possesso di una tecnica sopraffina, degni orchestrali di fila con metronomo incorporato, leggono un pentagramma e non sbagliano né il tempo né una nota. Pochissimi di loro, però, diventano concertisti, solisti, esecutori di levatura mondiale, musicisti che aggiungono quel tocco in più che distingue impietosamente i geni dagli impiegati del catasto. Una volta, un nostro amico più volte brassman dell'anno, secondo la classifica della BBC, ci disse: “Al mondo ci sono musicisti molto più tecnici di me, più veloci di me da sembrare extraterrestri, eseguono cascate di note con una facilità estrema ma, allora, perché scelgono me? Una risposta ce l'ho, per l'anima. Io ce la metto e me la gioco in ogni concerto”. La discriminante, in fondo, è proprio questa: a parità di bravura tecnica, vince chi ci mette l'anima e, per dirla con una frase scontatissima ma mai banale, butta il cuore oltre l'ostacolo.
La nostra ricognizione nel mondo dell'arte per questa VI edizione della Biennale Casoli Pinta, si è basata proprio sulla ricerca di chi, oltre alla bravura tecnica che tutti possiedono, nelle sue opere mette quel tocco in più che lo rende speciale, immediato, accattivante, coinvolgente e in grado di dipingere quella poesia muta sulla tela di cui favoleggiava Leonardo da Vinci.
In un lavoro compiuto essenzialmente su Internet visitando siti e ricevendo decine di immagini, il nostro tentativo è stato quello di proporre un tipo di arte che non fosse scontato né totalmente imperfetto, che parlasse al cuore oltre che agli occhi, che eccitasse la nostra capacità sinestetica di avvertire odori, terzine e quartine dietro ogni colore, di seguire con attenzione il racconto che si sviluppava attraverso tratti, pennellate, spatolate, manipolazione di materiali apparentemente inerti ma quanto mai vivi, di mostrare, insomma, quel quid che fa la differenza e ci rende consapevoli del fatto che siamo di fronte a un'opera d'arte e non al risultato di un giocoso (ma pericoloso) rito mercantile.
Il valore aggiunto è, appunto, il cuore, che inizia a battere freneticamente quando si rende conto che gli stimoli ricevuti dal cervello e captati dagli occhi, sono quel qualcosa di intangibile che si chiama emozione e, andando oltre, magia.
Avendo scelto le opere secondo un criterio soggettivo, sappiamo di esserne i responsabili unici, di avere sulle nostre spalle tutta la responsabilità che operare una scelta piuttosto che un'altra comporta, di metterci, infine, la faccia e la credibilità. D'altronde la vita, oltre a essere un gioco, è una meravigliosa scommessa prima con sé stessi e poi con gli altri, e se così non fosse, avremmo fatto i già nominati (senza offesa per carità) impiegati del catasto. Poi, per non farci mancare nulla, avendo sul monitor l'insieme delle opere e prendendo atto che gli spunti di partenza sono i più diversi (da Carrà a Mirò, da Picasso a Bosch, da Bacon a Pollock, da Modigliani a Renoir, da Schifano a Fontana, da Kandisky a Warhol fino a Picasso, Haring, Rothko e Basquiat), siamo arrivati alla conclusione che parecchi degli artisti invitati stiano percorrendo una loro strada nel vastissimo, eterogeneo, fantasioso mondo dell'Arte Contemporanea e che continuare a parlare oggi di Arte Contemporanea, facendo riferimento ai maestri del passato recente, rappresenta un vero e proprio azzardo.
Siamo in una fase “oltre”, a un momento post-Cattelan (genio sì, ma gran furbo), a una visione dell'arte che è contaminazione continua, sintesi e proposizione del mare di immagini nel quale siamo immersi da quando la comunicazione è diventata, di fatto, globale. Distinguere in categorie artistiche e di mestiere, cosa possibile fino a un decennio fa, è diventato un risiko, una sorta di battaglia navale nella quale se si colpisce un incrociatore, non è detto che la grande nave affondi. Pittori, scultori, disegnatori, fumettisti, architetti e geometri, fotografi, tatuatori, web-designer e mail-artist oggi si fondono senza che fra di essi esista più una linea certa di demarcazione.
L'Arte Contemporanea è ormai fuori da ogni contesto “classico”, fuori da qualsiasi mischia intellettuale e si avvia velocemente a proibirsi ogni semplicistica concettualizzazione.
E lo stesso percorso lo ha intrapreso la critica d'arte, quella che costruisce e demolisce geni e imbrattatele travestiti da geni. È impossibile continuare ad abusare degli stessi, rigidi concetti che l'hanno resa, al pari della critica cinematografica e musicale, incomprensibile ai più. È fuori dal mondo descrivere l'opera di un artista basandosi su schemi che hanno fatto il loro tempo. Il “distruggere altri per valorizzare l'artista protetto” è un gioco al massacro finito perché, fortunatamente, oggi un'opera d'arte che voglia definirsi tale, vive di luce propria e non riflessa, non è la somma di stili di altri ma l'espressione di uno stile personale, di un modo di intendere la vita, il mondo, il contesto sociale che ci circonda.
È diventata, finalmente, quella “poesia silenziosa” tanto amata dai cuori semplici, da coloro che guardano un'opera e sognano, da chi è in grado, ancora, di emozionarsi. Il concetto di arte, volenti o nolenti, è universale e unisce culture e tradizioni le più diverse riducendone le distanze, valorizzando i “punti” degli aborigeni e le “maschere” delle deità africane, l'uso del ferro, del cristallo, dell'acciaio con quello sempre vivo della carta e della tela. Dall'incontro di figure, di spazi, di forme nasce “il racconto” che si sviluppa attraverso le intuizioni della letteratura, i pentagrammi di una composizione musicale, le sequenze di un film. Oggi è impossibile continuare a considerare un'opera d'arte un momento a sé stante. È la somma di tendenze diverse che sollecita la fantasia, intenta a sondare un quadro o una scultura o una fotografia, a sentire le note di Tom Waits mentre canta BlueValentine e a vedere le sequenze di Blade Runner contemporaneamente.
È il modo di avvicinare all'arte avvicinando la gente a “tutta l'arte” e non a “esclusività”, come si è verificato fino a ieri. È il modo di raccontare la propria vita e le sensibilità che l'accompagnano, sfidando il mondo, facendo i folli, sublimando la grandezza del pensiero lontano dal nulla contemporaneo.
Nessuna intenzione di parafrasare Steve Jobs, anche se a suo modo anche lui è stato un artista, ma il tentativo di far comprendere che oggi o si parla di Arte con la A maiuscola o è meglio farsi quattro chiacchiere con il pensionato intento a seguire i lavori di posa della rete fognante. L'Arte con la A maiuscola è quella che parla al cuore e alla mente (e non viceversa), e non sicuramente solo al portafogli.
A questo punto, ci è venuto un flash, un concetto che parte dalle considerazioni fin qui sviluppate. È possibile continuare a parlare di Arte Contemporanea o siamo proiettati decisamente verso una “cont-contemporaneità”, quella che potremmo definire “contamination art”? Riflettendoci, l'ipotesi è sostenibile e, in fondo, abbiamo solo accolto il consiglio di Jobs.

il bello della vita è proprio l'imperfezione, il marchio della diversità, la ricchezza dei tratti originali che sfuggono al grigiore delle convenzioni...

Queste sono le parole di uno scrittore, Maurizio De Giovanni, e non di un critico, e si riferiscono a una indagine di polizia e non a una mostra presso una Galleria di Napoli. Quando il linguaggio, il codice, è comune e condiviso, allora scappa la parola magica: Arte.
E l'Arte è magia, altrimenti non è.


martedì 27 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Dietro l'angolo, niente


Dietro l'angolo, niente


In questi ballottaggi non ha votato neppure il cinquanta per cento degli italiani aventi diritto al voto, eppure tutti lì a cantar vittoria o seppellire nemici che, in fondo, è lo stesso. C'è chi paga l'arroganza, la supponenza, la stretta di mano e il saluto/sorriso forzato pro-elezioni e chi invece gioca da sempre sulle paure degli italiani, quelle ataviche, quelle psichiatriche, quelle falso-perbeniste, quelle che “tutto ciò che è diverso è peccato”. Eppure, in quanto accaduto nel ritorno bis alle urne per eleggere i sindaci, un dato spicca su tutti ed è quello legato all'astensione, ormai il primo partito d'Italia, quello che da solo vincerebbe qualsiasi consultazione elettorale. La si può mettere come la si vuole, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che fingono di fare gli gnorri non rendendosi conto che non riescono a smuovere nessuno se non gli aficionados, gli amici strettissimi, i parenti. Comunque vadano le cose, a governare sarà sempre una minoranza rappresentativa di sé stessa e degli interessi dei gruppi economici che la sostengono. Comunque vadano le cose, milioni di italiani continueranno a non esercitare il diritto-dovere di voto perché non si sentono più rappresentati da nessuno, men che meno da chi avrebbe voluto rappresentarli tenendo conto solo dei loro mal di pancia, senza una visione progettuale, senza il senso della collettività che se n'è andato a ramengo da un bel po' di tempo. Poi ascoltiamo le dichiarazioni dei leader e dei loro portaborse e ci rendiamo conto che proprio non ce n'è, che tutti razzolano nel loro pantano fangoso e che non rappresentano nessuno. Aver affondato la legge elettorale “germanicam”, ad esempio, è la dimostrazione che a parole tutti difendono il maggioritario ma che nei fatti, il proporzionale fa comodo, soprattutto ai cespugli che con il 5 per cento si ritroverebbero comunque a vivere di privilegi per i prossimi cinque anni. E andare a votare con il sistema elettorale uscito dalla Consulta, significa solo una cosa, che la grosse koalition è all'orizzonte e che il renzusconi sarà la via maestra di un Paese destinato a vivere fino in fondo le proprie contraddizioni. Traduzione elementare e veloce: moriremo berlusconiani che, se è peggio di non nascere affatto, resta comunque il senso amaro di una nazione incapace di guardare oltre le proprie tasche... il naso sarebbe una cosa grossa.


mercoledì 21 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. L'affare del [quasi] caro estinto


L'affare del [quasi] caro estinto

L'economia creativa è sempre stata una prerogativa del nostro Paese, una nazione nella quale ogni mezzo è buono per portare la pagnotta a casa e imbandire in qualche modo il desco familiare. Gli italiani, fantasiosi come pochi, si sono inventati di tutto. Dalla vendita del Colosseo all'allocco turista americano a quella dell'aria di Napoli in bomboletta spray, dalla lunga treccia di Giulietta alla segatura dentro la stecca di Marlboro fino alle reliquie tarocche di tutti i santi del calendario, e qualcuno inventato di sana pianta, siamo sempre stati una sintesi perfetta di fantasia e paraculaggine. Abbiamo ogni volta trovato, insomma, una possibile soluzione ai nostri guai economici e all'endemica povertà che in molte zone del paese continua ad albergare. La storia di oggi però, ha un non so che di film horror, di soluzione al limite del vilipendio, di un preoccupante segnale di mancanza di rispetto per la vita e per la morte quindi, delle due fonti principali di gioia e di tristezza che accompagnano la nostra esistenza terrena. Lo scenario è quello di Catania o, meglio, di Biancavilla in provincia di Catania. La vicenda ruota intorno a un ospedale che non poteva avere un nome diverso, il “Santa Maria Addolorata”. Mentre in tante altre parti d'Italia il malato in fin di vita viene lasciato in ospedale e poi, abbandonata l'anima a Dio trasferito in obitorio, in alcune resiste ancora la tradizione che la persona in agonia viene trasportata a casa per farla morire nel suo letto, tra gli affetti più cari. Ed è proprio durante questo brevissimo tragitto che la tragedia si compie e l'economia creativa trova la sua sublimazione. Per prime “Le Iene” poi, via via, quasi tutti i giornali, ci dicono che i barellieri incaricati di trasportare la quasi salma, ne accelerano, come dire, la dipartita iniettando nelle vene del futuro defunto una bolla d'aria che trasforma un corpo in cadavere. Uno potrebbe dire: “lo fanno per non far soffrire più un essere umano”, ventilando l'ipotesi della “pietas”. Ma in questo caso non c'è nessuna pietas, solo l'esigenza di guadagnare 300 euro dell'agenzia di pompe funebri che, solo per caso, si trova già a casa del defunto. Sembra che dalle indagini avviate dalla Procura di Catania, i casi siano stati decine se non centinaia, inutile, quindi, tirare le somme dei guadagni illeciti, basta aggiungere gli zeri. Ormai la vita e la morte si confondono, si intersecano dando vita a un groviglio di emozioni che non intaccano però il duro cuore di chi dovrebbe assisterci fino alla fine. Una morte vale 300 euro e al di là di qualsiasi considerazione possibile, resta una domanda di fondo alla quale ci piacerebbe dare una risposta: “Se una morte vale 300 euro, una vita quanto vale?”



martedì 20 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Dimenticare la moglie e prendersi del cretino


Dimenticare la moglie e prendersi del cretino


Quante volte è successo di dimenticare, nell'ordine: le chiavi di casa, della macchina, dell'ufficio, della dependance, della barca, del trimarano, di cancellare l'ultimo sms dell'amante, di fare il backup del pc, di cancellare la cronologia delle pagine di Internet per nascondere la visita notturna su PornHub, il compleanno della suocera, l'anniversario di matrimonio, il ricevimento dei professori a scuola del figlio, il dovere coniugale del sabato sera, l'ombrello quando spiove, il portafogli a casa, il quaderno con l'ultimo compito, il numero di telefono e così via fino ai calzini ai piedi e la cravatta al collo? A tutti capita di dimenticare qualcosa. I ritmi della vita moderna sono talmente elevati che le idee e i pensieri si accumulano, diventano una massa magmatica e deforme e il cervello va in tilt. Siamo capaci di dimenticare lo smartphone nonostante quella telefonata importantissima che stiamo aspettando da un mese, nonostante le notifiche di Facebook che si susseguono con quel cinguettio che alla fine spacca i cabasisi. Al culmine della sbadataggine siamo perfino capaci di dimenticare i figli in autogrill salvo farci perdonare con un gelato. Ma la moglie no, la consorte non si può perché quando e se dovesse accadere, se tutto va bene, sentiremo darci del cretino. È quanto accaduto a una coppia non più giovane dalle parti di Chieri, nel Piemonte astigiano. I due, in visita in motocicletta a un mercatino di Moncalvo d'Asti, avevano deciso di prendersi una giornata di totale relax. Caschi in testa, erano partiti di prima mattina per godere della brezza e dei profumi delle vigne. Al ritorno, forse la prostata gioca brutti scherzi o forse per godersi un gelato, si sono fermati e poi sono ripartiti o meglio, è ripartito il marito. Dopo 40 chilometri, il poveretto si è reso conto che alle sue spalle la moglie non c'era più. Colto dal panico e convinto di aver spiaccicato la consorte sull'asfalto, si è fermato e con la voce rotta dal pianto, ha chiamato i carabinieri. I militi dell'Arma sono prontamente accorsi sul posto e hanno percorso all'incontrario la strada fatta dalla coppia. La ricerca è terminata quando, pensiamo con una risata fragorosa, hanno visto la moglie con le braccia conserte e il piede che batteva nervosamente sulla strada, attendere il ritorno del marito al quale, grazie a un cellulare avuto in prestito, aveva telefonato urlando frasi irripetibili. Rivolta ai Carabinieri la signora, dopo aver detto le peggiori cose al marito, ha mormorato: “Scusatelo, è proprio un cretino”.


lunedì 19 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Il racket delle elemosine


Il racket delle elemosine

Si fa presto a dire “elemosina”, perché di tanto si tratta, e che non si provi a scambiarla per solidarietà che, almeno cristianamente parlando, è tutta un'altra cosa. Sono scene di vita quotidiana, quelle a cui assistiamo entrando o uscendo da un supermercato, da un bar, da un esercizio pubblico qualsiasi, da una chiesa. E riguardano principalmente donne e uomini che chiedono l'elemosina in cambio di piccoli gesti: aiutare a portare il carrello della spesa, caricare pacchi e buste in macchina, aprire una porta, dire “buongiorno” visto che oggi non lo dice più nessuno. Servizi minimi ma che richiedono in cambio qualche monetina. C'è anche chi di servizi non ne fa e l'elemosina la chiede e basta, ma sono sempre di meno, sembra quasi una questione di dignità. Poi, una mattina che esco prestissimo di casa perché non ne posso più di stare a letto, assisto a una scena di cui qualcuno mi aveva parlato pochi giorni prima ma alla quale non avevo mai assistito. Da un Suv (sic!) vedo scendere quella che sembra una compagnia di attori-mendicanti in tournée già vestiti di tutto punto per interpretare il ruolo di clochard. Armati di cartelli scritti in un italiano approssimativo e di cappelli, si avviano lentamente sui “luoghi di lavoro”, gli stessi davanti ai quali li ho visti molte volte chiedere la carità. Che capire che la cosa puzzasse, e parecchio, non occorreva un acume particolare, bastava guardare, perché spesso la realtà è la migliore testimone di fatti e circostanze sospette. Insomma, dietro agli elemosinanti ci sono gli elemosinatori, coloro che lucrano anche sui venti o cinquanta centesimi che il caritatevole dà a chi crede stia peggio di lui.
Mancava la conferma ufficiale a quello che era soprattutto un sentore e, a fugare ogni dubbio, ha pensato in questi giorni la polizia giudiziaria di Bari che ha scoperto il racket delle elemosine messo in piedi nel Cara di Palese. Il fatto è che la prostituzione, principale fonte di guadagno della criminalità più o meno organizzata, è in forte calo e non per la mancanza di domanda ma di offerta. Le ragazze provenienti dall'Africa, soprattutto dalla Nigeria, sono sempre più giovani e quindi meno disposte a farsi schiavizzare dai magnaccia di turno. Appena possono denunciano, e questo ha causato notevoli danni a una economia sommersa che fino a quel momento prosperava. Così, per sopperire a un'entrata certa e al soldo facile, i “ras” hanno pensato al cuore grande degli italiani e messo in piedi una vera e propria rete di elemosinanti da taglieggiare. Sembra Oliver Twist ma è la realtà, peraltro non uscita fuori dalla penna di un cronista di nera. Uno pensa di compiere il buon gesto quotidiano invece si ritrova, inconsapevolmente, ad arricchire la tratta delle anime perse. Per organizzare tutto questo, occorre una fantasia sconfinata ma anche una ferocia e una violenza che non tengono in nessuna considerazione l'umano che dovrebbe essere in ognuno di noi ma che ultimamente latita.



venerdì 16 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Che fatica fare i populisti!


Che fatica fare i populisti!

In un Paese meno fantasioso del nostro, fare il mestiere del populista è facile. Prendete ad esempio Nigel Farage. È un ignorante a trama grossa, ma talmente grossa che i suoi connazionali hanno capito immediatamente che era un bluff e lo hanno buttato fuori dal Parlamento. Raggiunto grazie alla stupidità di un certo David Cameron, che ha indetto il referendum Brexit fino a rimanerci sotto, il suo obiettivo massimo, Nigel Farage si ritrova oggi senza lavoro. Non può più fare il parlamentare europeo, perché dall'Europa è fuori, non può fare il parlamentare inglese, perché gli inglesi non l'hanno rieletto. Ma quella è l'Inghilterra, mica pizza e fichi. Trump, il narciso-populista Donald, è diventato presidente degli Stati Uniti ma rischia di essere messo già sotto impeachment che manco il Nixon peggiore. Se la faceva con i russi i quali, increduli, gli hanno perfino dato una mano in campagna elettorale. Ma l'Italia è cosa difficile, complicata e anche un po' schizofrenica. Nel Paese dei solisti a ogni costo, correre dietro alla pancia della gente deve essere di un difficile mostruoso, da CED fantascientifico, una cosa che avrebbe fatto diventare scemo anche lo Stanley Kubrick inventore di HAL9000, quello che si rifiutava di aprire le porte. Non deve essere un caso che Salvini, Grillo e il querelatore temerario Di Maio, che con 2001 Odissea nello spazio sono cresciuti, oggi hanno la stessa tentazione di HAL, chiudere tutte le porte e morire nel nostro splendido isolazionismo italiota. Quello che è successo ieri in Senato (e fuori), rappresenta visivamente lo specchio del nostro Paese. Una gazzarra da avventori di Bar Sport ubriachi dentro, una manifestazione di decerebrati fascisti fuori, ma uniti tutti dalla stessa parola d'ordine: dagli al negher (meglio se bambino così non si può difendere). E se da una parte i leghisti e i casapoundini hanno fatto quello che tutti si aspettavano, dall'altra il silenzio dei Fivestar ha fatto più rumore di una intera foresta che cade. E tutto ciò ha una spiegazione. Nottetempo, presso la Casaleggio Associati, gli analisti hanno fatto visita a Rousseau che, tranquillo, stava proseguendo nella sua elaborazione dei dati sensibili degli italiani microchippati. Tra una schermata e l'altra, è venuto fuori che agli italiani i negher stanno sulle palle e allora, è partito l'ordine ai senatori di astenersi sullo Ius Soli, una battaglia di civiltà e umanità che i vescovi italiani (con una coerenza cristallina) hanno abbracciato fin dall'inizio. Ora, con quale faccia Grillo potrà ripetere di essere il novello San Francesco? Che fosse un populista-malpancista lo sapevamo, ma che fosse diventato un farfallone cazzaro proprio no. Avevano ragione i miti frati di Assisi: “Piano con San Francesco, siamo seri per favore”.



giovedì 15 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Phubbing. E muori di solitudine


Phubbing. E muori di solitudine


Questo è un fenomeno serio anzi, serissimo. Talmente serio che gli analisti hanno iniziato a studiarlo dal 2013, quando l'uso smodato dello smartphone è deflagrato in tutta la sua pericolosità sociale. Gli hanno dato anche un nome, Phubbing che, come tutte le parole che finiscono in “ing” denota una quasi sindrome. Si tratta dell'atteggiamento “poco cortese di trascurare l'interlocutore con cui si è impegnati in una qualsiasi situazione, dall'ufficio alla camera da letto, per controllare compulsivamente lo smartphone ogni cinque minuti” (quando va di lusso). Che questa sorta di rivoluzione sociale fosse pericolosa, ce ne siamo accorti quando investimenti in mezzo alla strada di donne e uomini impegnati in un like o un emoticon, hanno iniziato a essere frequenti, i giornali hanno iniziato a riportarli con sempre più evidenza, i rapporti affettivi si disfacevano come la tela di Penelope. Perché parliamoci chiaro, impegnati in una discussione qualsiasi, che può riguardare la politica, il condominio, l'auto da riparare, i figli da crescere, la suocera da tenere a bada, lo sguardo intimidente di Gasparri, l'ultimo fanculo di Grillo, la boccuccia a culo di gallina di Renzi, accorgersi che la persona con la quale stai discutendo ride dell'ultima battutaccia colorata letta su Facebook, ti fa girare letteralmente le pale, tanto che il numero degli elicotteri in volo è in crescita esponenziale. Capita sempre più spesso di incontrare persone che girano con lo smartphone in mano e ridono, piangono, sbarrano gli occhi, digitano sulla tastiera come se fossero scrittori a cui sta scappando l'ispirazione, incuranti di quelli che gli passano accanto, dei figli nel passeggino, dell'amica che gli ha posto una domanda, dell'amante che la sta palpeggiando. Il contatto con lo smartphone sembra che anestetizzi, che renda tutto il virtuale reale e il reale virtuale, che in qualche modo ci scolleghi dalla vita di tutti i giorni per proiettarci in una dimensione che non è la nostra né riguarda i nostri pensieri profondi, ma un mondo che vorremmo fosse così, senza palpiti né sentimenti, emozioni e sussulti. Appena sentiamo il cinguettio della notifica, dovunque siamo, qualsiasi cosa stiamo facendo, il bisogno di prendere lo smartphone e vedere cos'è arrivato supera qualsiasi altra necessità, comprese quelle di bere, mangiare, fare l'amore, lavarci, dormire. Si dorme con un solo occhio perché con l'altro dobbiamo vedere se la spia diventa intermittente perché se lo diventa, si aprono entrambi e dobbiamo leggere per forza quello che sta accadendo ai nostri amici virtuali. Ma il top lo si raggiunge a letto quando, e succede sempre più spesso, impegnato nell'ultimo, sovrumano sforzo per il raggiungimento di un piacere fugace, l'uomo si sente dire: “Ops, scusa, una notifica. Puoi aspettare un momentino”? Già il “momentino” ti rende idrofobo, ma è il “puoi aspettare” che scatena le reazioni peggiori e mestamente, come un adolescente brufoloso, incurante delle minacce di cecità del parroco, ti ritiri in bagno e godi con un cinque contro uno da leggenda.


mercoledì 14 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Sirene, microchip e Mariachi nel metrò


Sirene, microchip e Mariachi nel metrò

Sembra un film di Mel Brooks eppure è la realtà. Il demential trash, se non fosse molto demential e poco trash, ci farebbe sorridere anzi, ridere di cuore e a crepapelle, un moto di esistenza in vita assente da tempo dalle nostre corde più intime. Siccome da ridere non c'è una mazza e di piangere, onestamente, non ci va, resta l'atteggiamento serafico di chi aspetta una parola di buonsenso dettata dall'intelligenza e non da moti spontanei di malpancismo a ogni costo. A Milano, da qualche parte, ci deve essere un centro che grazie ai microchip che tutti noi che vediamo le sirene abbiamo sotto la cute, permettono a un certo Rousseau di elaborare in tempo reale i dati provenienti dalla nostra pancia. Se ieri sera, ad esempio, ci siamo scolfanati un piatto di borlotti con le cipolle, il sismografo di Rousseau registrerà in tempo reale borbottii simili a quelli di un sisma del 4° grado Richter. Per cui il monarca portavoce, prontamente avvisato grazie al microchip reale che anche lui ha sotto la pelle, lancerà dal suo blog l'ennesimo editto senza capo né coda destinato ai feudatari. Stanotte deve essere accaduta una cosa del genere. Il buon Rousseau, che come tutte le macchine non dorme mai, deve aver registrato il moto di intolleranza che il candidato premier ha provato quando nel metrò ha incontrato un gruppo di mariachi intenti a suonare Cuccuruccuccù in cambio di pochi centesimi per una birra. Evidentemente, il moto di pancia deve essere stato talmente potente che è partito, sempre da Milano, l'editto contro quelli che chiedono l'elemosina in metropolitana. Perché poi proprio in metropolitana e non in strada o alla stazione non si sa e quindi, resta lo sconcerto di chi non capisce. Perdere le elezioni deve fare un male della maremma e allora, per tentare di rifarsi un po', si dà la colpa agli altri per nascondere i propri errori. In politica succede esattamente come nella vita di tutti i giorni. Facciamo una cazzata? La responsabilità non è mai la nostra ma del gatto nero che di prima mattina ci ha attraversato la strada. La nostre donne ci mettono le corna? La colpa non è nostra ma loro: puttane. Avviso dodici volte i giudici che mio marito mi vuole uccidere e alla fine mi uccide davvero? La colpa è dei giudici... ops, stavolta è andata proprio così. Insomma, la causa delle nostre disgrazie sono sempre gli altri anche se, agli altri, non riusciamo mai a dare un nome e un cognome, chissà perché. Ma che brutta cosa perdere la pazienza! Che sfiga non avere i nervi saldi quando bisognerebbe contare fino a cento prima di parlare! E deve essere frustrante prendere atto del fatto che l'unico che hai cacciato stravince alle elezioni mentre tu straperdi miseramente. Poi, arrivano i vecchi adagi a fare un po' di chiarezza, la saggezza popolare che ci soccorre nei momenti bui: il grillo frettoloso ha fatto sempre i grillini ciechi. 





martedì 13 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Destra, sinistra, boh!


Destra, sinistra, boh!

Per anni hanno tentato di spacciarci i “concetti” di destra e sinistra come roba vecchia e sorpassata. La manovra neanche troppo sotterranea di omologarci tutti, di renderci utenti/consumatori e non cittadini consapevoli, di rimbecillirci mostrandoci il mondo attraverso i filtri patinati dell'idiozia, in molti casi è riuscita, in altri miseramente fallita. La destra e la sinistra, termini coniati all'indomani della Rivoluzione francese, ci sono ancora e le ultime elezioni amministrative lo hanno dimostrato. Che poi non rispettino più i crismi del loro esistere è un altro discorso. In Italia, e in buona parte dell'Europa, tutto è nato nel momento in cui si è iniziato a parlare di post-ideologismo, come se l'appartenenza a sensibilità diverse (esemplificando nobiltà-borghesia da una parte, proletariato dall'altra), rappresentasse un vulnus insanabile per il vivere moderno nell'epoca della globalizzazione. E questo delirio di riposizionamento, ha portato gli operai a votare per Berlusconi e i ricchi borghesi dei Parioli per Renzi, un assurdo da psicanalista bravo che la Storia seppellirà. Poi è arrivato il momento in cui, insieme, hanno scelto di votare per i FiveStars e la frittatona dell'antipolitica si è consumata. Ora, se volessimo tirare per i capelli i risultati delle ultime amministrative, potremmo dire che la frittata si è liquefatta trasformandosi in un immangiabile zabaione e che la sinistra e la destra esistono ancora. I cosiddetti populisti, quelli cioè che basano il loro modo di fare politica guardando più alla pancia che alla testa dell'elettore, sono destinati a fare la fine di Nigel Farage, l'idiota più inutile e dannoso della storia politica mondiale degli ultimi dieci anni. Stesso discorso vale per i lepenisti in camicia verde e croce celtica, i casapoundini fessacchiotti e gli attrezzi arrugginiti della sinistra estrema, quelli che hanno ancora la foto di Lenin sul comodino e festeggiano l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. Per quello che riguarda noi, che nonostante tutto abbiamo ancora dalla nostra la sana passione per la politica, continueremo a non votare fino a quando non incontreremo sulla nostra strada qualcuno che il nostro voto lo meriti. Votare sempre conto è un esercizio inutile, ansiogeno e dannoso per l'intelligenza. Ci consola, ma è davvero una piccola consolazione, il dato in crescita dei ragazzi che si iscrivono all'università. Nel 2016, in controtendenza da quindici anni, si sono iscritti nei nostri atenei 12mila giovani in più. Chissà che un pizzico di cultura non riesca a rendere più idonei al voto i giovani che, quando si ritrovano con una scheda elettorale e una matita copiativa in mano, pensano di essere tornati al paleolitico e cercano inutilmente  il tasto "Invio".




lunedì 12 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Uno sguardo [assente] alle amministrative 2017



Uno sguardo [assente] alle amministrative 2017

Oltre a essere un popolo di politologi indefessi (commissari tecnici quando gioca la Nazionale, critici musicali quando c'è Sanremo, cinematografici quando arriva Venezia, medici quando si parla di vaccini, ingegneri quando crolla un ponte, pensionati quando c'è un lavoro in corso), gli italiani forti del loro tuttologismo, raggiungono il massimo della follia creativa quando si vota per il sindaco della città in cui abitano. Ormai, abituati come sono a cambiare bandiera, nulla li sconvolge più e se ieri si sentivano tutti rivoluzionari e votavano a man bassa per i FiveStars, nel momento in cui si rendono conto che di rivoluzionario in quella proposta non c'è una mazza, ma un irresponsabile pressappochismo, tornano a casa e si schierano chi a destra e chi a sinistra facendo sganasciare dalle risate due statisti del calibro di Toti e Speranza (solo di nome). Le amministrative, si sa, sono elezioni particolari. Quasi tutti ritrovano nelle liste fratelli, sorelle, cugini, zii, cognati, generi, amici di bisboccia, parenti alla lontana che telefonano solo perché sono candidati, amanti, concubine e concubini, geometri e capiuffici vari e quindi qualsiasi calcolo politico va a farsi friggere. Però, nonostante tutto, c'è chi, quando vince, dà a queste elezioni valenza nazionale quando di nazionale non ci sono manco le sigarette. Il crollo o presunto tale, dei FiveStars, ad esempio, potrebbe essere la conseguenza della loro incapacità di governare. Si può mettere come la si vuole ma, se vinci a Roma e a Torino e dimostri che al massimo puoi amministrare un condominio, la gente che non è fessa e si trova a combattere contro le buche e la monnezza da una parte e la pessima gestione organizzativa di eventi di massa dall'altra, cambia bandiera, casacca, boxer e pure voto nel segreto dell'urna. Il fatto è che se una lettura pur sommaria di questa tornata elettorale vogliamo darla, è quella che corriamo il rischio di essere governati ancora una volta da Brunetta, Gasparri e Romani. Allora sì che gli italiani avrebbero dato il meglio di sé, allora sì che salpare per andare e basta, diventerebbe un imperativo categorico. 



giovedì 8 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino. Il mito dell'amore eterno. Brooke&Ridge forever



Il mito dell'amore eterno. Brooke&Ridge forever


Lo giuro, domani scriverò del rapporto contronatura dei promotori della legge elettorale. Cercherò come sempre di dire la mia e se poi ci azzeccherò (come ha fatto ieri nametest con me), va bene, altrimenti me ne farò una ragione perché cercare di capire il nulla è complicatissimo. Oggi voglio scrivere di una perversione fisica e mentale, di una sindrome di Tafazzi sempre viva e attuale, di un falso mito dell'amore eterno e delle naturali aspettative degli avvocati matrimonialisti. Voglio affrontare, insomma, il tema del “nulla è come appare” che, dopo aver sviscerato la poetica pirandelliana, mi è diventato improvvisamente chiaro. Mi va di trattare un argomento, quel “ti piglio e ti lascio, ti ripiglio e ti rilascio” che spesso riduce i nostri rapporti a un'eterna partita a scacchi dove vince non chi mangia la regina ma l'intera scacchiera. È la moda del momento, bellezza. È l'atteggiamento mentale di chi cerca sempre rivincite non seguendo le regole del gioco e passando sopra qualsiasi sentimento. Poi, come ogni assassino che si rispetti, tornare sul luogo del delitto non è più la regola di un giallo scritto seguendone gli schemi narrativi consolidati, ma una condizione esistenziale che reitera il concetto del “voglio farti male”. Così, invece di prendere atto che la minestra riscaldata funziona solo in Toscana (però l'olio extravergine deve essere eccellente), ci illudiamo che riprendere un rapporto interrotto sia semplice, rassicurante, complesso ma comodo, invece è più complicato dell'affrontarne uno nuovo di zecca. Spesso, “il lasciar andare” è sinonimo di intelligenza e di maturità, senza considerare il fatto che il numero dei femminicidi scenderebbe in modo esponenziale, invece c'è chi lo ritiene solo un mezzo per riuscire a cambiarti e fino a quando non ci riesce, continua stoicamente a provare e riprovare. Ma ora, qualcuno mi spiega come possono Brooke&Ridge sposarsi per l'ottava volta? Otto addii ai celibati, otto marce nuziali, otto liste di nozze, otto ricevimenti, otto viaggi di nozze, otto prime notti, otto suocere (è sempre la stessa ma ripetuta otto volte), otto damine e paggetti che diventano trentadue perché nel frattempo sono cresciuti, una decina di preti (qualcuno sarà morto, o no?), otto location diverse, sedici fedi da infilare all'anulare, otto Cadillac, otto set di barattoli di latta da legare dietro alla Cadillac, insomma, un delirio continuo nel quale l'otto continua a farla da padrone. Richard e Liz in confronto erano dilettanti ma quella era la vita vera anche se, ad ogni proposta, il buon Burton doveva sganciare un fottio di soldi per diamanti sempre più grossi e costosi e spendere un patrimonio in bourbon. Sono convinto che gli sceneggiatori di Beautifull siano ormai a corto di idee anche se, invece di lanciare il messaggio che l'amore è eterno, e quindi sono giustificabili anche otto matrimoni, giocano ancora su complotti, piccole gelosie, rivalse da cucinare a fuoco lento, tentativi malcelati di omologazione. Ma questa volta, in camera da letto, Brooke&Ridge troveranno al posto dei fiori, un set di pannoloni. 

 

mercoledì 7 giugno 2017

Cornetto&Cappuccino E Bob accettò il Nobel, motivando...

Una immagine del video trasmesso dalla tv svedese, del discorso di accettazione del Nobel
E Bob accettò il Nobel, motivando...

Ed eccolo, l'happy end che questa storia (telenovela?) meritava. Bob Dylan ha finalmente inviato (sic!) a Stoccolma il discorso di accettazione del Premio Nobel e, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, non è stato pro-forma né una marchetta per ritrovarsi finalmente sul suo conto corrente i quasi 900mila dollari del Premio. Nel video-discorso, Dylan ha ripercorso la sua formazione soprattutto musicale ma, trattandosi comunque di un riconoscimento per la poetica dei suoi testi, anche quella letteraria. Citazioni solide e nobili (Melville, Remarque e Omero) e quasi la sensazione che si vergognasse un po' a sentirsi messo sullo stesso piano di Hemingway e di Steinbeck. E questo è il punto che ci ha fatto amare ancora di più il menestrello americano del XX Secolo. Perché non c'è dubbio che se dal punto di vista letterario qualche perplessità l'abbiamo avuta, da quello musicale e quindi della capacità che solo un genio può avere di unire generazioni a ideali, gli accademici di Svezia avevano colto nel segno. Sempre nel suo discorso, Dylan affronta il tema del linguaggio folk delle sue canzoni, anche se non cita (omissione volontaria?) il padre nobile del genere, il Woody Guthrie che ha cantato come pochi i diritti degli ultimi e dei “profughi” della Route 66 negli Anni '30. Se da una parte Dylan voleva rendere “popolari” le sue canzoni con un giro di accordi e uno slang alla portata di tutti, dall'altra l'influenza dei grandi classici della letteratura con cui era entrato in contatto, gli aveva lasciato la capacità di strutturare le frasi partendo da una cultura di base solida, compresa e condivisa, il resto lo fece la sua genialità e soprattutto la sua sensibilità. Una convinzione, alla fine, ce la siamo fatta. Tanta riottosità nell'accettare il Premio e le apparenti manfrine messe in atto da dicembre 2016, non erano state la conseguenza di un divismo un po' snob e di un modo di voler apparire “altro” rispetto all'usuale, ma una vera e propria sindrome di inadeguatezza che lo aveva colto dopo aver ricevuto la notizia, lasciandolo senza parole per qualche mese. Il suo, insomma, è stato un discorso di accettazione vero e sorprendentemente sincero. Quasi a voler dire, “io sono questo e vi ringrazio per avermi accettato come sono. E ascoltate le mie canzoni, non leggete i testi".
Non capita sempre, non capita spesso.