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giovedì 21 aprile 2016

Il caso D'Angelis/Raggi. Giornalismo 2.0? No, versione 2016 della macchina del fango

I fatti sono noti. L'Unità, organo d'informazione del PD renziano, pubblica il video di uno spot pubblicitario di Forza Italia (2008). Fra le comparse presenti nel filmato, il giornale crede di individuare Virginia Raggi, candidato 5Stelle alle amministrative romane. La Raggi smentisce con forza e, in effetti, la comparsa non è lei. L'Unità non pubblica la smentita (atto dovuto per i giornali che pubblicano notizie non vere) anzi, raddoppia e si giustifica. Il direttore D'Angelis dice, parafrasando Bogart: "Questo è il giornalismo ai tempi dei social, giornalismo 2.0". Omette per puro spirito caritatevole "bellezza", ma il senso è quello. In nessun modo, la velocità giustifica una falsità. Mai un giornalista dovrebbe pubblicare notizie non verificate, altrimenti non si parla più di giornalismo ma di "passa veline" agli ordini del leader di turno o, se si vuole, di "macchina del fango 2.0". A chiedere scusa alla signora Raggi, ha provveduto il presidente nazionale dell'Ordine, Enzo Iacopino, che ha detto: "Non lo fanno loro, chiedo scusa io alla signora Raggi. Ho esitato, è evidente, ma alla fine, pur consapevole che qualcuno si risentirà (uso un eufemismo), non sono riuscito a farmi una violenza capace di indurmi a tacere. Quanto fatto dall'Unità nei confronti di Virginia Raggi, non è informazione ma una vergogna. Sia chiaro, gli incidenti nel nostro mestiere accadono (un po' troppo spesso in verità).Ma si dimostra di avere la schiena dritta anche scusandosi, e non arrampicandosi sugli specchi contribuendo a pregiudicare la nostra già precaria credibilità".
D'accordo totalmente con il "nostro" presidente. Ci permettiamo solo un piccolo appunto. Qualcuno ha chiesto scusa al giudice Mesiano colpevole di indossare i calzini turchesi e all'ex direttore di Avvenire, Boffo, assatanato viveur omosessuale? Non vorremmo che, anche in questo caso, la colpa fosse del giornalismo 2.0, che spinse Belpietro, Feltri e Sallusti a pubblicare notizie non veritiere, cucinate per l'occasione.


giovedì 7 aprile 2016

L'agghiacciante intervista a Salvo Riina. La Vespa si è definitivamente trasformata in mosca

Alla domanda: "Cosa pensa di questa intervista?" Emanuele Schifani, figlio di Vito Schifani - un agente della scorta di Giovanni Falcone trucidata a Capaci - ha avuto un lungo momento di silenzio. Vespa, il collega Vespa, ne ha rifatta un'altra delle sue. Con la scusa del sacro, anglosassone, ferreo diritto/dovere dell'informazione, ha compiuto una delle più becere manovre di revisionismo mafioso mai fatte in Italia. Ci aveva già provato Canale 5 con "Il capo dei capi" ma, trattandosi di una fiction, la cosa passò allora in secondo piano. Ieri sera, Bruno Vespa ci ha fatto sapere, all'uscita del libro del rampollo della grande famiglia Riina, che Totò 'u curtu' era uno stinco di santo e che, il giorno della strage di Capaci, il mafioso più ricercato d'Italia e del mondo, se ne stava in pantofole a casa, a Palermo, a guardare il telegiornale e a leggere il giornale. Ma non solo, anche che lo Stato ha commesso un grandissimo errore ad arrestarlo, perché Totò, innanzitutto, era un padre. Insomma, la famiglia di quel macellaio che ha fatto sciogliere nell'acido un ragazzino, era un nucleo di brave persone intente a lavorare e andare a messa. Un lavoro pericoloso, perché con il tritolo non si scherza, e cercare di far saltare in aria lo stadio Olimpico zeppo di spettatori, una missione al di là di ogni possibilità umana ma non mafiosa. E meno male che il timer s'incantò, altrimenti staremmo qui a raccontare un'altra storia. Questa non è informazione e del figlio di Riina, che sente tanto la mancanza di un papà buono come il pane, a noi, sinceramente, non interessa una mazza. Quello che ci disturba, e pure tanto, è la colossale opera di disinformazione messa in atto da chi, in lunghi anni di carriera, ha ospitato nel suo salotto buono il fior fiore dei delinquenti, facendogli firmare anche un contratto. Ma Vespa li ha frequentati i corsi di deontologia promossi dall'Ordine?














martedì 5 aprile 2016

Perditempo, potenti, potentissimi e arroganti

Governare è maledettamente difficile, specie in Italia dove la suddivisione in "arti e mestieri" è la stessa che nel Milledugento. Gli interessi che si portano avanti, sono quelli che riguardano la nostra categoria di appartenenza; in poche parole l'interesse comune non esiste. Il popolo italiano, compreso chi scrive, è parcellizzato, una volta si diceva sclerotizzato, all'interno della propria attività lavorativa e quindi, di una personalissima categoria. Taxisti, farmacisti, notai, idraulici, medici e infermieri, pusher, agenti di pubblica sicurezza, personale ata, custodi di museo, escort, petrolieri, industriali, figli di..., imbianchini, tappezzieri, ceramisti, preti e perditempo (uno dice, che fai? Il perditempo. E già si è iscritto a una categoria), lottano con le unghie e con i denti per mantenere intatto il loro status. Guai a cercare di cambiare perché a tutti sta bene così.
Il governo? E' una porcheria se prova a toccare un privilegio consolidato nel corso di ventenni, trentenni, quarantenni e cinquantenni. Praticamente da quando l'Italia si unì (inno, alzabandiera e mano sul cuore, please).
Ultimamente, alle già mille e più categorie che compongono il nostro contesto sociale, se n'è unita una che esisteva già ma, apparentemente, senza la presunzione di dotarsi di uno statuto, un regolamento e una serie di norme attuative. Parliamo della categoria degli arroganti, quella che Treccani definisce "che tratta gli altri con insolente asprezza e con presunzione".
Direttamente proporzionale all'ignoranza, l'arroganza è immediatamente riconoscibile da chi la pratica, meno da chi si sente travolto da un mare di parole, spesso senza senso, che testimoniano solo una maggiore capacità verbale, solitamente non comprovante altrettanta professionalità e conoscenza.
I politici tutti, senza distinzione di sesso, età, appartenenza, studi primari e secondari, appartengono a questa categoria. Ma la cosa che ci fa impazzire, è quando se la attribuiscono a vicenda. Brunetta che dà dell'arrogante a Renzi è tutto da ridere, meno quando lo fa Cuperlo, perché con la sua aria da serial killer perbene, corre il rischio di sviarci. L'arroganza è quella sindrome psichiatrica che porta ad assiomi. Tutto quello che dicono è vero semplicemente perché lo dicono loro. Che poi si menta a ogni piè sospinto è un fatto che non riguarda i politici perché, domani è un altro giorno e quello che hanno detto oggi vale per oggi e non per domani.
Portatori sani della sindrome di Vercintorige, abbiamo sempre preferito i perdenti con l'onore delle armi, ai vincenti senza merito, quelli che pur di vincere pescano nel torbido, ché tanto quel pesce se lo mangeranno gli altri.
E vincere senza merito, è uno degli alibi possibili per disegnarsi addosso l'atteggiamento dell'arrogante, quell'essere viscido (e tremebondo alla prima folata di vento contro), che ti investe di parole alzando la voce perché la ragione non basta. Purtroppo, colpevole l'informazione soprattutto televisiva, l'arroganza è diventata un fenomeno senza più confini nobili, quelli delle aule parlamentari, ma mobili sì. Basta vincere, che so, le primarie del PD a qualsiasi latitudine, e ci si sente improvvisamente padreterni con il colpo in canna. Ma forse il PD è un caso a parte, perché anche quando si perdono...
Basta essere candidati sindaci, perfino di un paesello di trecento anime, e l'aspetto fisico cambia, cambiano gli atteggiamenti, cambia lo stesso rapporto con moglie o marito e figli, cambia la camicia e la cravatta, le scarpe ma soprattutto il modo di porsi. Il “io sono io e voi...” con quel che segue, diventa il motto di Cetto, buono per guardare dall'alto in basso chi su quella poltrona ti ci ha messo. Il potere logora chi non ce l'ha, ma anche chi ce l'ha (oggi) non è che stia messo tanto bene.