Phubbing.
E muori di solitudine
Questo
è un fenomeno serio anzi, serissimo. Talmente serio che gli analisti
hanno iniziato a studiarlo dal 2013, quando l'uso smodato dello
smartphone è deflagrato in tutta la sua pericolosità sociale. Gli
hanno dato anche un nome, Phubbing che, come tutte le parole che
finiscono in “ing” denota una quasi sindrome. Si tratta
dell'atteggiamento “poco cortese di trascurare l'interlocutore con
cui si è impegnati in una qualsiasi situazione, dall'ufficio alla
camera da letto, per controllare compulsivamente lo smartphone ogni
cinque minuti” (quando va di lusso). Che questa sorta di
rivoluzione sociale fosse pericolosa, ce ne siamo accorti quando
investimenti in mezzo alla strada di donne e uomini impegnati in un
like o un emoticon, hanno iniziato a essere frequenti, i giornali
hanno iniziato a riportarli con sempre più evidenza, i rapporti
affettivi si disfacevano come la tela di Penelope. Perché parliamoci
chiaro, impegnati in una discussione qualsiasi, che può riguardare
la politica, il condominio, l'auto da riparare, i figli da crescere,
la suocera da tenere a bada, lo sguardo intimidente di Gasparri,
l'ultimo fanculo di Grillo, la boccuccia a culo di gallina di Renzi,
accorgersi che la persona con la quale stai discutendo ride
dell'ultima battutaccia colorata letta su Facebook, ti fa girare
letteralmente le pale, tanto che il numero degli elicotteri in volo è
in crescita esponenziale. Capita sempre più spesso di incontrare
persone che girano con lo smartphone in mano e ridono, piangono, sbarrano gli occhi, digitano sulla tastiera come se fossero scrittori a cui
sta scappando l'ispirazione, incuranti di quelli che gli passano
accanto, dei figli nel passeggino, dell'amica che gli ha posto una
domanda, dell'amante che la sta palpeggiando. Il contatto con lo
smartphone sembra che anestetizzi, che renda tutto il virtuale reale
e il reale virtuale, che in qualche modo ci scolleghi dalla vita di
tutti i giorni per proiettarci in una dimensione che non è la nostra
né riguarda i nostri pensieri profondi, ma un mondo che vorremmo
fosse così, senza palpiti né sentimenti, emozioni e sussulti.
Appena sentiamo il cinguettio della notifica, dovunque siamo,
qualsiasi cosa stiamo facendo, il bisogno di prendere lo smartphone e
vedere cos'è arrivato supera qualsiasi altra necessità, comprese
quelle di bere, mangiare, fare l'amore, lavarci, dormire. Si dorme
con un solo occhio perché con l'altro dobbiamo vedere se la spia
diventa intermittente perché se lo diventa, si aprono entrambi e
dobbiamo leggere per forza quello che sta accadendo ai nostri amici
virtuali. Ma il top lo si raggiunge a letto quando, e succede sempre
più spesso, impegnato nell'ultimo, sovrumano sforzo per il
raggiungimento di un piacere fugace, l'uomo si sente dire: “Ops,
scusa, una notifica. Puoi aspettare un momentino”? Già il
“momentino” ti rende idrofobo, ma è il “puoi aspettare”
che scatena le reazioni peggiori e mestamente, come un adolescente
brufoloso, incurante delle minacce di cecità del parroco, ti ritiri
in bagno e godi con un cinque contro uno da leggenda.
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