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sabato 2 settembre 2017

VI Biennale d'Arte Murale "Casoli Pinta". Il testo critico


il bello della vita è proprio l'imperfezione, il marchio della diversità, la ricchezza dei tratti originali che sfuggono al grigiore delle convenzioni... (Maurizio De Giovanni)

Una Biennale, lo dice la parola stessa, è una manifestazione che si ripete con scadenza regolare: due anni. Questo fa supporre che terminata una edizione, ci si appresti a organizzare quella successiva avendo di fronte lo stesso spazio temporale durante il quale conoscere, incontrare, scegliere, proporre, invitare artisti. Il tempo dato per questa VI edizione di Casoli Pinta, è stato invece di due mesi e, considerato agosto notoriamente dedicato a tutto fuorché al lavoro, ciò che abbiamo avuto a disposizione può essere racchiuso nel pugno di una mano; riassumendo, un po' di giorni.
Nonostante tutto, avendo le idee abbastanza chiare su quali passi muovere e quali contatti prendere, il lavoro è stato frenetico sì ma anche estremamente appagante e, aspetto più importante, coerente con la nostra linea di pensiero.
In fondo, abbiamo messo in pratica quello che è diventato da qualche tempo un chiodo fisso, una elaborazione culturale che possiamo riassumere in una serie di domande: come si muove l'Arte Contemporanea oggi, quali tratti comuni possono essere presi in considerazione per continuare a parlarne senza voltarsi indietro e senza attualizzare un passato nobile, per carità, ma sempre passato. E, infine, che valore dare al tratto imperfetto figlio di un cuore che batte e che senso dare, invece, alla pseudo-perfezione derivante da un puro astratto scolastico? Prendiamo come esempio (altrettanto nobile) la musica. Quasi tutti i musicisti studiano e si diplomano al Conservatorio. Sono pochi quelli che non lo fanno e riescono comunque a raggiungere vette inarrivabili, in Italia forse un paio, Luciano Pavarotti e Lucio Dalla. Ebbene, i musicisti che escono dal Conservatorio, al 99 per cento sono bravi, ottimi strumentisti in possesso di una tecnica sopraffina, degni orchestrali di fila con metronomo incorporato, leggono un pentagramma e non sbagliano né il tempo né una nota. Pochissimi di loro, però, diventano concertisti, solisti, esecutori di levatura mondiale, musicisti che aggiungono quel tocco in più che distingue impietosamente i geni dagli impiegati del catasto. Una volta, un nostro amico più volte brassman dell'anno, secondo la classifica della BBC, ci disse: “Al mondo ci sono musicisti molto più tecnici di me, più veloci di me da sembrare extraterrestri, eseguono cascate di note con una facilità estrema ma, allora, perché scelgono me? Una risposta ce l'ho, per l'anima. Io ce la metto e me la gioco in ogni concerto”. La discriminante, in fondo, è proprio questa: a parità di bravura tecnica, vince chi ci mette l'anima e, per dirla con una frase scontatissima ma mai banale, butta il cuore oltre l'ostacolo.
La nostra ricognizione nel mondo dell'arte per questa VI edizione della Biennale Casoli Pinta, si è basata proprio sulla ricerca di chi, oltre alla bravura tecnica che tutti possiedono, nelle sue opere mette quel tocco in più che lo rende speciale, immediato, accattivante, coinvolgente e in grado di dipingere quella poesia muta sulla tela di cui favoleggiava Leonardo da Vinci.
In un lavoro compiuto essenzialmente su Internet visitando siti e ricevendo decine di immagini, il nostro tentativo è stato quello di proporre un tipo di arte che non fosse scontato né totalmente imperfetto, che parlasse al cuore oltre che agli occhi, che eccitasse la nostra capacità sinestetica di avvertire odori, terzine e quartine dietro ogni colore, di seguire con attenzione il racconto che si sviluppava attraverso tratti, pennellate, spatolate, manipolazione di materiali apparentemente inerti ma quanto mai vivi, di mostrare, insomma, quel quid che fa la differenza e ci rende consapevoli del fatto che siamo di fronte a un'opera d'arte e non al risultato di un giocoso (ma pericoloso) rito mercantile.
Il valore aggiunto è, appunto, il cuore, che inizia a battere freneticamente quando si rende conto che gli stimoli ricevuti dal cervello e captati dagli occhi, sono quel qualcosa di intangibile che si chiama emozione e, andando oltre, magia.
Avendo scelto le opere secondo un criterio soggettivo, sappiamo di esserne i responsabili unici, di avere sulle nostre spalle tutta la responsabilità che operare una scelta piuttosto che un'altra comporta, di metterci, infine, la faccia e la credibilità. D'altronde la vita, oltre a essere un gioco, è una meravigliosa scommessa prima con sé stessi e poi con gli altri, e se così non fosse, avremmo fatto i già nominati (senza offesa per carità) impiegati del catasto. Poi, per non farci mancare nulla, avendo sul monitor l'insieme delle opere e prendendo atto che gli spunti di partenza sono i più diversi (da Carrà a Mirò, da Picasso a Bosch, da Bacon a Pollock, da Modigliani a Renoir, da Schifano a Fontana, da Kandisky a Warhol fino a Picasso, Haring, Rothko e Basquiat), siamo arrivati alla conclusione che parecchi degli artisti invitati stiano percorrendo una loro strada nel vastissimo, eterogeneo, fantasioso mondo dell'Arte Contemporanea e che continuare a parlare oggi di Arte Contemporanea, facendo riferimento ai maestri del passato recente, rappresenta un vero e proprio azzardo.
Siamo in una fase “oltre”, a un momento post-Cattelan (genio sì, ma gran furbo), a una visione dell'arte che è contaminazione continua, sintesi e proposizione del mare di immagini nel quale siamo immersi da quando la comunicazione è diventata, di fatto, globale. Distinguere in categorie artistiche e di mestiere, cosa possibile fino a un decennio fa, è diventato un risiko, una sorta di battaglia navale nella quale se si colpisce un incrociatore, non è detto che la grande nave affondi. Pittori, scultori, disegnatori, fumettisti, architetti e geometri, fotografi, tatuatori, web-designer e mail-artist oggi si fondono senza che fra di essi esista più una linea certa di demarcazione.
L'Arte Contemporanea è ormai fuori da ogni contesto “classico”, fuori da qualsiasi mischia intellettuale e si avvia velocemente a proibirsi ogni semplicistica concettualizzazione.
E lo stesso percorso lo ha intrapreso la critica d'arte, quella che costruisce e demolisce geni e imbrattatele travestiti da geni. È impossibile continuare ad abusare degli stessi, rigidi concetti che l'hanno resa, al pari della critica cinematografica e musicale, incomprensibile ai più. È fuori dal mondo descrivere l'opera di un artista basandosi su schemi che hanno fatto il loro tempo. Il “distruggere altri per valorizzare l'artista protetto” è un gioco al massacro finito perché, fortunatamente, oggi un'opera d'arte che voglia definirsi tale, vive di luce propria e non riflessa, non è la somma di stili di altri ma l'espressione di uno stile personale, di un modo di intendere la vita, il mondo, il contesto sociale che ci circonda.
È diventata, finalmente, quella “poesia silenziosa” tanto amata dai cuori semplici, da coloro che guardano un'opera e sognano, da chi è in grado, ancora, di emozionarsi. Il concetto di arte, volenti o nolenti, è universale e unisce culture e tradizioni le più diverse riducendone le distanze, valorizzando i “punti” degli aborigeni e le “maschere” delle deità africane, l'uso del ferro, del cristallo, dell'acciaio con quello sempre vivo della carta e della tela. Dall'incontro di figure, di spazi, di forme nasce “il racconto” che si sviluppa attraverso le intuizioni della letteratura, i pentagrammi di una composizione musicale, le sequenze di un film. Oggi è impossibile continuare a considerare un'opera d'arte un momento a sé stante. È la somma di tendenze diverse che sollecita la fantasia, intenta a sondare un quadro o una scultura o una fotografia, a sentire le note di Tom Waits mentre canta BlueValentine e a vedere le sequenze di Blade Runner contemporaneamente.
È il modo di avvicinare all'arte avvicinando la gente a “tutta l'arte” e non a “esclusività”, come si è verificato fino a ieri. È il modo di raccontare la propria vita e le sensibilità che l'accompagnano, sfidando il mondo, facendo i folli, sublimando la grandezza del pensiero lontano dal nulla contemporaneo.
Nessuna intenzione di parafrasare Steve Jobs, anche se a suo modo anche lui è stato un artista, ma il tentativo di far comprendere che oggi o si parla di Arte con la A maiuscola o è meglio farsi quattro chiacchiere con il pensionato intento a seguire i lavori di posa della rete fognante. L'Arte con la A maiuscola è quella che parla al cuore e alla mente (e non viceversa), e non sicuramente solo al portafogli.
A questo punto, ci è venuto un flash, un concetto che parte dalle considerazioni fin qui sviluppate. È possibile continuare a parlare di Arte Contemporanea o siamo proiettati decisamente verso una “cont-contemporaneità”, quella che potremmo definire “contamination art”? Riflettendoci, l'ipotesi è sostenibile e, in fondo, abbiamo solo accolto il consiglio di Jobs.

il bello della vita è proprio l'imperfezione, il marchio della diversità, la ricchezza dei tratti originali che sfuggono al grigiore delle convenzioni...

Queste sono le parole di uno scrittore, Maurizio De Giovanni, e non di un critico, e si riferiscono a una indagine di polizia e non a una mostra presso una Galleria di Napoli. Quando il linguaggio, il codice, è comune e condiviso, allora scappa la parola magica: Arte.
E l'Arte è magia, altrimenti non è.


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