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Sfruculii



Le mani che accarezzano 
(Editoriale per UT)


La prima volta che ne ho sentita una violenta in faccia avevo tre anni. Da quel momento, da quelle lacrime più di rabbia che di dolore, dissi a me stesso che non le avrei mai usate in quella maniera.
E tanto è stato. Le mani non sono soltanto estremità funzionali per compiere gli atti quotidiani della vita. Sono molto di più, i sensori sempre attivi del cervello. In qualche caso ci sarebbe da dire: meno male, almeno quello. Le mani procurano e ci procurano sensazioni infinite, basta saperle usare, basta non disperderne il calore e l'energia. Non serve mica essere pranoterapeuti, occorre semplicemente essere. Perché le mani stringono, scaldano, raffreddano, lavorano, suonano, picchiano, schiaffeggiano, gesticolano, arraffano, stuzzicano, brandiscono, rubano, dipingono, scolpiscono, sporcano, puliscono, lavano, stirano, accendono il fuoco, arrotolano sigarette e sigari, stappano bottiglie, turano bottiglie, nuotano, galleggiano, scrivono, strappano, votano, scrutinano, prendono, offrono, ritirano, consegnano, reggono, cucinano, assolvono, benedicono, raccolgono, seminano, mietono, vendemmiano, levigano, piallano, scartavetrano, visitano, progettano, allestiscono, vestono, spogliano, frustano, crocifiggono, sventolano, ammainano e compiono altri mille gesti a volte consapevoli altre inconsulti. Ma quello che amo di più, il gesto che più di ogni altro le nobilita, è quando le mani accarezzano. Lievemente, dolcemente, lasciandosi andare in viaggi che iniziano e potrebbero anche non finire mai, aggrappandosi a sartie e gomene come ad altre mani e ad altre braccia. Le mani che accarezzano sono quelle degli artisti e dei poeti, forse “solo” degli artisti e dei poeti. Dotate di una sensibilità sorprendente, sanno sempre dove e come andare, dove e come accarezzare, dove e come far piangere e ridere. Le mani, più del cervello, sentono e offrono, prendono e danno, fuggono e restano. Sono le mani, null'altro che dieci dita indipendenti che vivono di luce propria stampando sulla sabbia solo l'ombra di se stesse.



Il fascino del suono del sole e della luna
(Editoriale per UT)

Tanti anni fa, il Grundig radio/fonografo ne trasmetteva centinaia… di suoni. Se la sintonia non era all’altezza, oltre ai suoni si sentivano gracchiate da mandare fuori di testa tutti, ma non me.
Io amavo i suoni, qualunque essi fossero, e se c’erano quelli più vicini a rumori piuttosto che a suoni, non faceva niente; l’importante era che non ci fosse il silenzio. Che il silenzio avesse una gamma infinita di suoni, me ne sono accorto solo molto tempo dopo e, da allora, non l’ho mai abbandonato, il mio silenzio. Il fatto è che con il passare delle stagioni, sono riuscito a dare un suono a ogni silenzio. Il silenzio della notte non è uguale a quello del giorno, così come quello dell’inverno non assomiglia affatto a quello dell’estate. Il sole ha un suono, la luna anche. I fiori hanno il loro suono e, se mi fermo ad ascoltarle con attenzione, anche le pietre e… la sabbia. Guai scambiare per silenzio la calma piatta del mare o un cielo pieno di stelle, i suoni che trasmettono, aspri o melodiosi, rappresentano spesso solo uno stato d’animo. Ci sono momenti in cui perfino lo sbattere delle ali di una farfalla è assordante, mentre in altri, il frangersi violento delle onde del mare in tempesta sugli scogli, è solo un soffio che entra prima nella mente poi nel cuore e solo alla fine nelle orecchie. Cresciuto con il suono (sound) dei Beatles, per un po’ ho creduto che quello dei Led Zeppelin fosse rumore, mentre non era che un suono diverso. È partendo da questo presupposto che sono arrivato alla conclusione che nella musica non esistono rumori ma “suoni diversi”. Riflettendoci un momento, lo stesso ragionamento può essere fatto per la vita di tutti i giorni. Non esistono persone, quelle che incontriamo per strada o al bar o a un concerto o a un flash mob, paragonabili a rumori, hanno solo un suono diverso.





Travolto dal desiderio
(Editoriale per UT)


Travolto. Ecco come mi sento. Dall'indifferenza, dal cinismo, dal pressappochismo, dalla smania di protagonismo, dalla noia (degli altri) che diventa dannosa, da vite inespresse che si vogliono esprimere rovinandoti la tua, da gente che sguazza nel pantano e che per sentirsi viva si agita e tracima. Travolto. Ecco come mi sento. Dalla mancanza di idee, di coraggio, di forza, di iniziativa, di farsi largo senza spintonare, denigrare, invidiare, ricattare dicendo di farlo “in nome di...”. Travolto. Ecco come mi sento. Dall'insulsaggine, da chi ride per forza e per forza deve farti male sennò non si appaga. Quindi, da travolto, desidero. Vorrei campare tranquillo. Di quello che ho e di quello che so fare. Vorrei alzarmi la mattina convinto che oggi non sarà come ieri, perché ieri, arrivato alla mezzanotte, mi aveva stancato. Desidero tenere sempre gli occhi aperti, perché se li chiudo vedo il buio che non è la mancanza di luce ma di pensieri, di emozioni, di sensibilità mai peregrine che mi riconciliano con il mondo e la gente, con la natura e gli animali e mi spinge a fare la “differenziata” facendomi finalmente comprendere a cosa serve. In un dilagare di monnezza, di caratteri persi nell'ignavia, di occhi senza sguardo, desidero andare, mettermi in viaggio e, passo dopo passo, scegliere la destinazione, anche quella che non esiste, non c'è, non è tracciata su nessuna mappa di Google. Alla fine il desiderio non è una grande scommessa. Forse un modo di porsi che non prevede nessuna lampada di Aladino, perché quella è una favola mentre la vita è un'altra cosa. E desidero ancora una favola. Una di quelle di mia nonna che non erano mai favole ma racconti tracimanti sentimenti. Desidero una favola forse perché la vita mi ha stancato e se si chiama delusione, non ci posso fare nulla. Però, fuori dal supermercato, sprizza ottimismo. Lo stesso di chi a pranzo e a cena, vede sempre il bicchiere pieno perché il vuoto lo ha dentro. Io ci provo, a desiderare. Non è detto che ci riesca, però almeno ci provo.



La sensualità è uno schermo bianco
(Editoriale per UT)


Potrebbe essere un’immagine, un bacio colto da un clic di Doisneau a Montmartre. La si potrebbe intuire, ma occorrerebbe possedere il dono raro di saperla riconoscere. È madonna sensualità, il sangue che scorre nelle vene prima di sfociare dove vuole. La prima volta che ci apparve aveva le gambe di Marlene che cantava al Der blaue Angel. Il professor Unrath aveva capito tutto. Aveva compreso che le gambe di Lola-Lola erano qualcosa di più di una visione, rappresentavano la casa dell’anima avvolta da calze a rete. Per decenni il cinema ha raffigurato la sensualità attraverso gli arti femminili, le gambe ma anche le braccia, specie se svelate in tutta la loro carica ammaliante da un lento sfilare guanti neri di seta. Il sottofondo? Put the Blame on Mame, naturalmente. Gilda è una delle figlie predilette di King Vidor che non si accontenta di esaltare solo la sensualità declinata al femminile, ma anche una carica omosessuale allora compresa da pochi. Quando per esigenze di copione, e per una logica commerciale molto indulgente nei confronti del voyeurismo, a dover essere mostrato era l’intero corpo di una donna, si ricorreva all’uso dei veli in controluce. Cos’era la “Divina” Greta in Grand Hotel se non la sublimazione stessa della sensualità che fa la sua comparsa sulla scena semplicemente aprendo una porta? Poi arriva un costume bianco e la storia della sensualità nel cinema subisce un’accelerata che non avrà più bisogno di frenate isteriche. È lei, Liz Taylor, diretta da Mankiewicz in Improvvisamente l’estate scorsa. Quel costume aderente, a mala pena argine di pericolose fuoriuscite, bagnato dopo un tuffo nell’oceano sarà difficile da dimenticare, come le “forme” che faceva intuire in un misto di sensualità ed erotismo che rappresentò allora l’immagine stessa dell’impossibile. Era stato preceduto da un altro costume da bagno, questa volta nero, e da un’altra attrice. Deborah Kerr sembra divertirsi molto quando un irresistibile Burt Lancaster l’avvolge fra le braccia rotolandosi sulla risacca. È Da qui all’eternità, e l’eternità sembrò davvero più vicina di quanto non lo fosse in realtà. All’improvviso tutto cambia, muta, impazzisce. A subire una vera e propria rivoluzione è l’intero immaginario collettivo occidentale. Una ragazza con alle spalle un passato da dimenticare e un futuro in cui il solo sperare rappresenta un optional, si trasforma da Norma Jean Baker in Marilyn Monroe e diventa un’icona. È l’immagine stessa della sensualità, la donna che ne contiene le caratteristiche fondamentali: l’innocenza, il candore, la voglia di amare e di essere amata, protetta, stimata, desiderata, conquistata. È quel tipo di sensualità sinuosa e molto demodé, che ci porta ad accarezzare le sensazioni più che le realtà. Marilyn non è Lolita, tanto meno Sue Lyon, è Marilyn anche quando esordisce in un attillato abito rosso e ricopre il ruolo di assassina. Niagara è l’inizio, la fine è nota a tutti.
Con Marilyn inizia e termina quello che per anni è stato il nostro sentire la sensualità, e non solo nel cinema. Il mito di Marilyn è legato alla nostra vita di tutti i giorni e alle poche emozioni che ci regala. Per questo è il più prezioso, il più introvabile, quello che una volta incontrato non lo si vorrebbe lasciare mai ma che se ne va, come tutto, come sempre, come accade anche ai miti.



Un peccato chiamato tenerezza
(Editoriale per UT)


C’è un posto, nell’Iowa, che si chiama Madison County. Esiste davvero, c’è. E’ attraversato addirittura da tre strade: la 35 Interstate Highway, la 169 U.S. Highway e la 92 State Highway. Fino al 1995 Madison County era famosa, si fa per dire, per essere stata la location del Grinta tanto che i cittadini, memori, dedicarono una piazza all’eroe americano per eccellenza, John Wayne, protagonista di uno dei film più brutti della storia di Hoollywood.
Nel 1995 Robert Kincaid, fotografo di mezza età del National Geographic, capita da quelle parti per un servizio sui ponti coperti, vera ricchezza storica della piccola e sperduta città dell’Iowa. L’estate è torrida e il paese quasi deserto. Decide di fermarsi in una fattoria per chiedere informazioni sui ponti e incontra Francesca Johnson, una quarantenne dall’aria dimessa che quasi nulla ha da chiedere ancora alla vita. Francesca è sposata, ha due figli ed è compresa nel ruolo di moglie e madre frutto anche delle origini italiane. Robert è un uomo incantevole, molto dolce, sussurra invece di parlare, si muove lentamente e quando lo fa sembra volare. Francesca ne resta affascinata e non può non cadergli fra le braccia, lei che di due braccia che la tengano stretta ha bisogno quanto l’aria per respirare. Inevitabilmente l’amore e la passione li travolgono, li ubriacano di emozioni mai provate, li fa diventare all’improvviso adolescenti con una vita da sognare davanti, mentre non sono che due adulti in cerca solo di un perché. Il rapporto fra Robert e Francesca è amore allo stato puro, e la dolcezza e la tenerezza che lo contraddistinguono, seguono percorsi a loro sconosciuti, aprono orizzonti infiniti facendoli vibrare della loro stessa presenza. Si chiedono come tutto possa essere accaduto, ma di risposte non riescono a trovarne se non alla fine di quello che è solo un film. Tornati dalla fiera del bestiame il marito e i figli, Francesca è costretta a decidere fra l’amore e il ruolo di moglie e di madre. Sceglie come giusto le sembra per la sua educazione, per la cultura che si porta appresso dalla nascita, per quel senso di martirio che accompagna le scelte dolorose fra il lasciarsi andare fra le braccia della mediocrità o fra quelle che riempiono la vita e il cuore di un calore senza fine. Sceglie di rinunciare all’amore e di portarsi appresso, per tutta la vita, il ricordo di quello che poteva essere e non è stato per una sua scelta, per un obbligo imposto non si sa bene da chi né per quale ragione. Clint Eastwood e Meryl Streep danno vita a uno dei più struggenti film d’amore (e di eutanasia) che siano mai stati girati. Attraversano lo schermo portandosi appresso talmente tanta tenerezza negli sguardi, nei movimenti, nei baci, negli abbracci e nelle carezze, da chiedersi come possa finire un sogno tanto grande. Quando anni dopo Robert Kincaid morirà, invierà a Francesca la macchina fotografica con cui l’aveva ritratta sotto i ponti di Madison County. Robert Kincaid farà avere a Francesca, con la Reflex, i suoi stessi occhi, quelli che nel frattempo erano restati aperti solo per coglierne ancora un sorriso, una smorfia, uno sguardo tenero come il sole al tramonto di una estate torrida, in un posto attraversato da tre strade: la 35 Interstate Highway, la 169 U.S. Highway e la 92 State Highway.



Soljana
(Racconto breve per UT)


Quando Mirko fu arrestato era aprile e Soljana aveva tredici anni, l’età giusta per capire quello che stava accadendo, e per comprendere che quella era la violenza.
Soljana, la cena è pronta, lavati le mani e scendi” – le gridava la madre.
Il tempo di scendere le scale di corsa e Mirko le aveva già svuotato il piatto.
Suo fratello aveva l’appetito dei venti anni e una voglia incontenibile di vivere. Amava le donne e amava ancora di più la democrazia sinonimo di libertà; se ne nutriva a piene mani, come con le pannocchie di granturco che l’estate divorava in campagna. Era bello Mirko, e all’università era una sorta di oggetto del desiderio dell’universo femminile, uno di quei ragazzi belli, bravi e intelligenti che fanno la felicità di suocere, zie acquisite e cognate impertinenti. A Mirko però interessavano cose diverse, meno frivole: la politica e il giornalismo, quello che sarebbe diventato il suo lavoro e che già faceva per un settimanale indipendente.
Soljana stravedeva per lui e poco le importava che il piatto di minestra fosse una facile preda delle fauci del fratello; per lei era un mito, un ragazzo baciato dalle mille fortune che gli erano piovute addosso tutte insieme e tutte spudoratamente felici di essersi incontrate nella stessa ora, nello stesso posto, nella stessa persona.
Quando arrestarono Mirko, sfondando la porta di casa e rompendogli il naso con il calcio di un fucile, Soljana aveva tredici anni, l’età giusta per essere terrorizzata dalla scena che stava vedendo, e insufficiente per tentare un gesto di ribellione qualsiasi. Mirko venne portato via a braccia, in una scia di sangue che colorava di rosso il pavimento di granito grigio. Sentiva le punte delle scarpe del fratello battere sui gradini della scala, e il ringhiare di cani arrabbiati che, minacciosi, impedivano a chiunque di mettere il naso fuori dalla porta. Soljana avrebbe voluto piangere ma decise di non farlo, si avvicinò all’uscio e guardò fisso negli occhi l’unico uomo in abiti civili di quel drappello di soldati affamati appena usciti dalla gabbia delle bestialità. Aveva gli occhi chiari, i capelli biondi, la faccia pulita e la barba rasata. Indossava un paio di jeans e un giubbotto di pelle nera, come il novanta per cento dei giovani di quell’età. Non aveva l’aspetto del carnefice, piuttosto di un bravo ragazzo appena uscito dalla messa di mezzogiorno. Decise che quello sguardo non lo avrebbe mai dimenticato e che quegli occhi, e quella pelle bianca, sarebbero stati il cibo dei suoi incubi.
Insieme con i genitori cercò inutilmente di avere notizie di Mirko, ma non si sapeva dove fosse, dove l’avessero portato, che fine avesse fatto.
Tutti conoscevano qual era il destino degli oppositori, perfino quelli dell’Onu, della Croce Rossa e delle organizzazioni pacifiste internazionali, ma nessuno muoveva un passo, nessuna voce si levava a disturbare quello che si stava trasformando in genocidio sotto gli occhi di tutto il mondo mantenuti, però, rigorosamente chiusi.
Le famiglie vivevano una sorta di schizofrenia esistenziale, con l’anima divisa fra la rassegnazione e la speranza. Ma tutto era incertezza, nebbia puzzolente, prospettive interrotte, urla rimaste in gola per la paura di provocare una valanga di emozioni devastanti.
Soljana girava la città alla ricerca dello sguardo che aveva fissato nella mente e sigillato nel deposito dei ricordi. Fissava tutti negli occhi, tutti quelli che gli ricordavano l’uomo in borghese arrivato una mattina a prendersi il fratello. Scrutava sguardi in attesa di una risposta al suo bisogno di sfogare tutta la rabbia che aveva dentro, la stessa che si era trasformata in poco tempo in rancore fino all’esplosione nell’universo malato della voglia di uccidere.
Quando arrestarono Mirko, Soljana aveva tredici anni e scoprì che la capacità di odiare non aveva età, arrivava prepotente in un attimo e sarebbe restata per sempre.
Fu all’uscita di scuola che ritrovò quello sguardo, era lui, era lì e non aveva dubbi. Sigaretta in bocca, mani in tasca, era un ragazzo normalissimo, del tutto simile a quelli che avevano ancora venti anni, come Mirko, suo fratello, arrestato una mattina d’aprile e mai più rivisto.
La rabbia e la disperazione le stavano divorando lo stomaco e sarebbero arrivate presto al cuore e al cervello. Strinse le mani a pugno fino a sentire le unghie scavarle la carne giovane e il caldo delle gocce di sangue uscirle lentamente. Lo fissava con disprezzo, ma anche con un orgoglio e una dignità che la violenza aiuta a crescere in fretta. Era in mezzo alla strada e le macchine le correvano ai lati, come un fiume che all’improvviso si biforca.
Era impossibile non vederla, non guardare quella ragazzina magra con lo sguardo fisso e allucinato che sembrava perdersi nel vuoto della solitudine. Anche lui la guardò, prima sogghignando poi sempre più intensamente, come se quel vestito ben stirato gli ricordasse altri vestiti indossati da donne a cui era stata sottratta la dignità. La riconobbe. Per un istante sembrò stesse rivivendo anche lui la scena recitata da protagonista in casa di Soljana. Si mise a camminare a passo svelto, una fuga da due occhi che non riusciva a fissare, da uno sguardo che lo stava penetrando nell’anima. Soljana lo vide girare l’angolo e sparire nei vicoli della città vecchia. Aveva tredici anni quando Mirko, suo fratello, fu arrestato. Era aprile e “buonasera Belgrado libera” sarebbe risuonata solo qualche anno dopo in una piazza gremita di gente e gonfia di musica. Era il 5 ottobre del 2000.

Dedicato a Soljana. Aveva tredici anni quando il regime di Milosevic decise, autonomamente, che il fratello studente e giornalista, aveva vissuto il suo tempo.



Iridata nei riflessi, bianca come la morte
(Editoriale per UT)


Pianificando i temi del terzo anno di UT abbiamo pensato alla “fantasia” come momento fondamentale del nostro modo di porci. Cosa può spingere altrimenti tre persone dotate di raziocinio a intraprendere un viaggio come quello di UT se non una dose anomala di fantasia?
Siamo partiti da un’idea fantastica ed eccoci qui, a metà cammino del terzo anno di vita di una rivista che non finisce mai di stupire. La nostra fantasia si è nutrita dei libri di Salgari e dei film di Charlie Chaplin. Passando attraverso gli eroi di De Amicis e le immagini del neorealismo ci siamo resi presto conto di possedere una fantasia malata, quella che rende umani gli uomini e sublima la dignità. Quanti, troppi voli nella nostra vita per non avvertire il bisogno di planare dolcemente, guardarsi intorno e riprendere a volare perché altrimenti non sarebbe la nostra esistenza, non se ne nutrirebbe il nostro amore, non vedremmo il mondo intorno con occhi diversi. E non è un problema di intelligenza ma di sensibilità. E non investe il cervello ma il cuore e i muscoli che sopravvivono grazie ai suoi battiti. Non occorre essere vedenti, non importa essere credenti, non basta saper disegnare l’isola che non c’è o fotografare un mendicante al tramonto. È sufficiente che la mente sia sgombra, che il deserto ci circondi, che non si sentano né spari né urla. Basta questo perché la fantasia esista, ci sia, ci rotoli intorno e ci si insinui dentro, come lo spillone di Cio Cio San che tradita da Pinkerton, fantastica su una nave all’orizzonte che non arriverà in tempo per la vita.
È la fantasia che si trasforma in desiderio, in passione, in gioia e nel dolore più profondo quella che i nostri collaboratori (tante collaboratrici), hanno delineato per questo numero estivo di UT. Come sempre ci sono loro, i collaboratori, coloro che UT la redigono materialmente a dispetto dei condizionamenti e di una libertà che in molti stanno cercando di ridurre a una enorme bolla d’aria: iridata nei riflessi ma bianca come la morte. 




L'indiscrezione è per cuori forti
(Editoriale per UT)



La discrezione mi è sempre apparso un atteggiamento più da baciapile che non da gentiluomo di campagna. Fare tutto in modo discreto nasconde una ipocrisia di fondo che urta, infastidisce, obnubila e cela. È il modo un po’ misterioso di coprir corna e misfatti. Perfino chi ruba è discreto, perché se lo facesse alla luce del sole che ladro sarebbe? Verrebbe scambiato per un provetto prestigiatore, un redivivo Houdini. Così alla discrezione ho sempre preferito l’indiscrezione di chi vuol capire non accontentandosi di prendere atto. E tanto è ipocrita la discrezione, quanto maledettamente eccitante l’indiscrezione. Chissà perché poi, nel corso del tempo, l’occhio indiscreto (ma è solo un esempio), è sempre stato scambiato per lo sguardo del voyeur che ama il buco della serratura o la siepe di un giardino, anfratti buoni per spiare gli altri e per dare un fugace quanto inconcludente attimo di turbamento furtivo allo spione. Ma furtiva è la lagrima cantata dalla lirica di Donizetti e furtivi sono i baci canoviani di Amore e Psiche, e su quella e questi si posa l’attenzione degli uttiani mai domi nel cercar sensi e dare definizioni. Così, indiscreto diventa l’occhio del ragazzino che penetra i misteri della vita guardandosi intorno con fare esplorativo, perché sa benissimo, da subito, che nulla è come appare e che un’occhiata discreta non gli consegnerà mai il senso delle cose. Così indiscreto diventa il cuore di chi vede la morte intorno a sé e inizia a battere asincrono in attesa che tutto si compia. E indiscreto è l’avanzare lento di una emozione, che entra negli occhi penetrando il cervello di chi ha ancora voglia di pensare, perché il resto è pattume. Apparentemente leggero, il tema dell’indiscrezione si rivela invece per quello che è, non un affare da amanti persi del gossip, ma di gente che vede la vita per com’è (dura) e non per come appare (una passeggiata). Noi indiscreti siamo fatti così, non ci accontentiamo di guardare soltanto, perché non è vero che gode chi si contenta, chi lo fa sopravvive, lasciando agli altri l’eccitazione di ciò che resta.




L'infinito finito
(Editoriale per UT)


È lo stacco drammatico di un paesaggio che si interrompe, l’infinito finito della nostra anima. Profondamente distonici, ci capita a volte di pensare all’infinito come alla migliore via di fuga da una realtà rifiutata. Ma ci rendiamo conto che si tratta solo di una linea d’orizzonte mal tracciata che nulla concede alla fantasia mentre indulge alla rassegnazione. Succede quando arriva la malinconia, la tristezza fa rima con pochezza, il sogno si trasforma in inganno. Succede spesso perché il nostro infinito non sta nei profili delle colline recanatesi né nell’orizzonte del mare piatto di fine luglio ma oltre, dopo, dove non si vede e lo si può solo idealizzare. E noi puntiamo a quell’infinito, a quello intracciabile e indefinibile perché altrimenti che infinito sarebbe? Allora ci rifugiamo nella poesia, nelle rime e nei sonetti, nei canti e nei calembour perché è in quei luoghi che l’infinito trova la sua ragione di essere, si eleva e gorgheggia come un soprano la Turandot. Una poesia non è mai finita. La viviamo come uno svolgersi di sensazioni, di emozioni non più latenti alle quali un punto non mette fine rappresentando l’inizio di un’altra storia. Nella poesia ci tuffiamo come nella musica perché anche se le note sono sette e le parole sono scritte tutte nei dizionari, conta come si miscelano, si confondono, si attorcigliano, si slargano e alla fine capiamo che l’infinito sta proprio lì, nell’’enne’ soluzioni possibili di una canzone, di una frase melodica, di un inno d’altri tempi, di un racconto scritto con i piedi perché la penna non basta. Noi abbiamo un bisogno ancestrale di muoverci, di andare, di iniziare il viaggio verso l’infinito alla ricerca solo di noi stessi perché agli altri del nostro viaggio non interessa, non li affascina, non li ammalia. Preferiscono la comodità di una casa, la tranquillità di uno sguardo, la stabilità di mura finte come coloro che ne sono circondati. Ma forse si tratta di assedio e dagli assedi si esce infinitesimando l’arsura.



Ho visto angeli cadere
(Editoriale per UT)

Ho attraversato meridiani e paralleli cercando di non pensarci. Credo di aver preso decine di aerei senza la curiosità morbosa di mettere in ordine alfabetico le Compagnie con le quali ho volato.
Però l’ho fatto, ho volato. E ogni volta che sono atterrato da qualche parte, le cose da fare erano mille e una sola: raccontare. Così ho scritto storie vere cercando di renderle meno vere per non ferire gli animi candidi di una pletora di occidentali tronfi della loro saccenteria e grassi della loro immensa ignoranza. Ho raccontato storie di bambini e di donne, di uomini, tanti, con i quali ho avuto la fortuna e la sfortuna di imbattermi. Ho visto lucciole cadere da un cielo stellato ma non erano lucciole, erano bombe e neppure troppo intelligenti. Mi è capitato di imbattermi in violenze che nulla avevano di umano, se di umanità si può parlare quando si lascia una gamba su una mina antiuomo di fabbricazione italiana e quella gamba è di un bambino. Cosa ci faceva proprio lì? Forse voleva solo giocare. Ma questa è una risposta che i mercanti non vogliono né ascoltare né recepire, facendo finta che il mondo va alla grande, come le figlie di madama Dorè, quelle sempre belle, carine e disponibili delle giostre idiote delle convenzioni. È capitato di avvertire forte, anzi fortissimo, addirittura devastante, l’odore della carne bruciata e dello zolfo manco fosse l’inferno.
E forse lo era l’inferno. E forse i demoni non avevano né corna né forconi, solo una divisa.
Ci sono calci di fucile che entrano dritti fra le costole e ti ritieni fortunato perché è solo un pezzo di legno e non di piombo. Capiti fra i malati di Aids e conti le mosche che devastano corpi senza più identità e si infilano in occhi che non desiderano altro che di chiudersi per sempre, e ti rendi conto che l’idiozia delle religioni quei corpi li deve tenere ancora in vita, l’espiazione nel dolore, la sofferenza come catarsi.
Incontri Jashim che ha sei anni, una gamba, un braccio, e due occhi che sorridono sempre, riaccendendo l'illusoria speranza che nulla è perso. A Jashim basta poco, un “ciao” per farlo sentire il padrone del mondo. Ti risponde con un altro “ciao” e parla di Roberto Baggio come fosse un suo amico. Poco oltre, di storie come quella di Jashim, ne ascolti tante. E così senti Nana che, stanca delle botte del marito e della famiglia del marito e della sua famiglia, mette in un sacco l’ultimo rigurgito di orgoglio e arriva in un campo profughi non senza essere stata violentata strada facendo. Il mondo, alla fine, è racchiuso in un fiume d’ira, magari lo stesso che bagna i piedi di dittatori sanguinari che l’Occidente tiene sul trono perché “conviene”. E allora l’ira aumenta, si mischia con l’impotenza, e ci si rende conto che di belle parole, di sogni ad personam, del mercato delle illusioni a poco prezzo non sappiamo che farcene. E allora, chi si permette di denunciare genocidi e di rivendicare la libertà per il suo popolo, viene trattato alla stregua di un rompiscatole qualsiasi adducendo avvilenti “ragioni di stato”. Ci sono le olimpiadi, e c’è il petrolio, e ci sono i diamanti, e il rame maledetto, e il silice, e l’acqua, e tutte le confindustrie del mondo. Non possiamo parlare di diritti umani e forse, alla fine, Tien An Men è stato solo un film, l’uranio impoverito una invenzione della propaganda sovversiva, il napalm una crema abbronzante, i gas nervini un fertilizzante che qualcuno ha adoperato per aiutare i curdi a coltivare le loro terre riarse. Vorrei prendere per mano Jashim e provare a fare un girotondo con lui. Magari cantandogli una canzone stupida. O forse solo per raccontargli la storia di Roberto Baggio che un rigore, qualche tempo fa, lo sbagliò anche lui.





La solitudine
(Editoriale per UT)

Se la si lascia giocare da sola la soluzione è il suicidio. E a volte la voglia c’è. La solitudine in una perfetta alternanza di sequenze e di controsensi dilania, deflagra, è più rumorosa di una scarica di mortaretti la notte di Capodanno, quello che c’è, quello che verrà, quello che non ci sarà. Ci si guarda nello specchio e ci si sente soli. Vedi le tue rughe, gli occhi cerchiati da una notte d’inferno, la pelle che si desquama e la fronte sempre più spaziosa e pensi: sono solo, maledettamente, incontrovertibilmente solo. Ti dai un’ultima occhiata nella speranza che in pochi istanti qualcosa sia cambiato ma non è cambiato niente. Forse tu, però è improbabile. Vieni da giorni in cui hai provato a scherzarci, a blandirla, ad affascinarla, a conquistarla ma lei ti è sempre sfuggita, sparita fra le dita proprio mentre hai cercato di stringerla, di sentirne la sostanza, di viverla come idea. Ti rendi conto che è sparita solo per entrarti dentro. La senti mentre ti prende allo stomaco, mentre ti prosciuga la bocca e ti riempie gli occhi di lacrime, quelle che sanno di amaro. Ti provoca sussulti, tremori, balbettii proprio mentre le parole ti sarebbero utili, indispensabili per discutere con te, per trovare un senso a tutto quello che ti sta scorrendo intorno senza sentimento e senza direzione. Per la prima volta nella tua vita cerchi un compromesso, un modo di conviverci senza danni irreversibili, senza che l’anima si perda in mille rivoli di una non comprensione mortale. Ti rendi conto che ogni compromesso è inaccettabile anche se inevitabile e tu, all’inevitabilità non hai mai creduto. La solitudine non è figlia del destino né di un fato gramo e contro di per sé. È tua figlia, l’hai creata tu, cresciuta tu, sfamata tu quando avresti avuto bisogno di tutto il resto meno che di lei. È un rapporto perverso, incestuoso quello che hai con la solitudine, ma è l’unico che conosci e non puoi farci nulla se non subirlo. Ma un conto è subire altro soccombere e tu non vuoi arrenderti. Prendi il coraggio, te lo poni davanti e come si fa con gli amici, gli domandi: “che faccio?” Come fanno gli amici veri non ti darà risposte, non sputerà sentenze, non tenterà di condizionare la tua vita. Tacerà aspettando insieme con te un qualsiasi giorno migliore. 





Menti offuscate. Fiori recisi. 
(Editoriale per UT)

Ha più colori dell’arcobaleno ma, alla fine, è sempre la stessa. Si chiama violenza, esiste da sempre, e si esplicita nelle forme più disparate, visibili e meno visibili, più o meno spettacolari. Ad essa ci siamo abituati come gli inglesi al tè delle cinque, è una delle nostre compagnie ricorrenti anche quando vorremmo non ci sfiorasse. Con il tempo si è raffinata ed ha assunto caratteristiche fino a ieri impensabili. La prima è quella che affrontiamo quotidianamente e riguarda la nostra intelligenza. Viene violentata da chi vorrebbe manipolarla, condizionata dalle menzogne (che sono anche loro forme di violenza) di chi non ha altri mezzi per creare un obbrobrio in termini che si chiama consenso e che viene inseguito calpestando persone e dignità. La seconda è quella che fa scempio dei diritti saccheggiando doveri. Il lavoro negato, l’ambiente devastato, l’impossibilità di curarsi per vivere decentemente, la negazione della piena libertà di espressione, l’oppressione, le intimidazioni, i ricatti di un mondo sempre più proiettato verso un’omologazione voluta da potenti e potentati, e avallata da servi, maggiordomi, nani e ballerine. Poi c’è la terza ed è la peggiore. La chiamano “bianca” ed è il delitto più feroce, quello contro esseri che non sono in grado di difendersi da chi, alla loro difesa, dovrebbe provvedere per mandato divino. E se in questo caso la parola “perdono” è lontana dai nostri pensieri, e dalla nostra intelligenza, il senso di disgusto che ci pervade è quasi simile all’indignazione che ci travolge. Questo numero di UT non poteva che partire da un ritratto forte di violenza “bianca” per finire a quella che ci è più conosciuta e che riguarda l‘eterno, violento rapporto fra i deboli e i forti. Per la prima volta nella sua breve vita, UT ha lasciato ai collaboratori la libertà di ricorrere alla cronaca, al reale, alla vita vissuta e ai titoli dei giornali. Per la prima volta, la “musicalità” che contraddistingue la nostra rivista dalla nascita, si interrompe perché quello che vorremmo fosse solo un brutto film dell'orrore, è la prassi a cui lentamente ci si sta assuefacendo incapaci di urlare “ci siamo stancati, tutto questo non lo tollereremo più”. 




Il senso delle ali 
(editoriale per UT)


Mi piacerebbe aprire tutte le porte che non ho aperto e percorrere le strade che non ho percorso. Dietro ogni porta poteva esserci un mondo altro, una vita, una storia. Lungo le strade salite e discese, sassi e pozzanghere, forse un prato umido. Mi sono sempre chiesto cosa celasse un’asse di legno verticale trasformata in porta da una toppa e una maniglia: probabilmente l’universo, forse il mondo intero, magari il mistero. È sull’ignoto che molte volte ho puntato la barra cercando di penetrarlo quasi fosse nebbia, o vapore o solo un fumo denso. È il mistero che mi ha accarezzato quando ho dato tutto per vissuto o per già visto, ed è sempre stato il mistero, e il gusto di assaporarne l’inconsueto, che mi ha fatto capire che vale la pena svegliarsi la mattina.
La bellezza del mistero e dell’ignoto è pari alla forza della fantasia che riesce a dare corpo e anima alle ombre, e più si infittisce più cattura, e più si addensa più intriga. È la voglia di navigare in mezzo al mare o quella di accodarsi a una carovana che percorre il deserto rosso. È riuscire a coglierne l’essenza profonda, e non la parvenza di un tragitto da percorrere o di miglia da traversare in attesa del porto; l’ignoto non ha porti né oasi, non collega strade, non ha un piano regolatore.
Il mistero non si pone obiettivi, vive di se stesso e fagocita le intelligenze più e meglio del gorgo delle sensazioni veementi, dirompenti, dilanianti ma vitali dell’esistere; più, e meglio, di una sera d’inverno trascorsa ad ascoltare storie.
Il mistero e l’ignoto rappresentano il mondo del bambino che cresce scoprendo ogni giorno, ogni ora, ogni istante della sua esistenza che le cose da conoscere e da capire sono mille e ancora mille e mille più mille ancora. Vola il mistero. Sulle ali di cosa nessuno lo sa, anche perché come si può capire il mistero? Lo fa scavalcando monti e percorrendo valli e insinuandosi laddove solo un amore grande può entrare, nel profondo dell’anima che non ha dimensioni, né misure, né voglia di essere normale.
Penso alle fate e il mistero mi riavvolge. Quelle rosse, quelle bianche e quelle turchine. Sono le fate delle favole e della vita vera se si ha la fortuna di incontrarle. Non è vero che sono in possesso di una bacchetta magica anzi, in mano non hanno che coriandoli e stelle filanti, ma si portano appresso molto di più: i sogni. C’è chi ha una paura folle dell’ignoto, e lo fugge come fosse un peccato. E non è l’ignavia a fermarli ma il pessimo rapporto con la loro fantasia. Ci si impedisce di sognare non avendo la forza di farlo e tutto quello che appare, e che non è consueto, genera terrore, come se la scoperta fosse un gioco di società e la vita una roulette russa da combattere a colpi di “stavolta è andata”.
È bello il mistero, ed è di una bellezza rara perché non ha fattezze se non quelle che si immaginano chiudendo gli occhi e passeggiandoci a fianco con il rischio di cadere. È bello l’ignoto e la sua bellezza è tutta racchiusa nella possibilità di percorrerlo senza porsi domande e senza chiedersi mai perché: basta volare, aprire le ali e sbatterle dando loro un senso.



Lo stupore degli sciocchi 
(editoriale per UT)

Ohhh... Sembra di assistere alla proiezione di un film ricco di effetti speciali. Ormai lo stupore si accompagna all’irreale perché la realtà, quella che transita attraverso le 24 misere ore di una giornata, non stupisce più nessuno. Si tratti di guerre, di crisi, di scandali o di burlesque, tutto è scontato, privo di sorprese, piatto e pianificato come un giornale di gossip che tira fuori lo scoop al momento giusto. Non stupisce più l’efferatezza né la violenza spicciola, non stupisce più l’amore né l’odio. I nostri occhi e i nostri cuori si sono assuefatti, inariditi, spogliati della loro essenza: guardare e amare. Così lo stupore è diventato prerogativa dei bambini, è il loro regno incontaminato, la loro ancora di salvezza, sempre che abbiano genitori intelligenti, altrimenti... Persa l’ingenuità, ci siamo trasformati in un’armata delle tenebre che sconta l’ignoranza e la mancanza di curiosità, l’amore per la vita e per le cose che la vita rendono (almeno) vivibile. Ci si affida agli sciocchi e ai violenti sperando, da una parte, di trovare un alibi alla nostra superficialità, dall’altra uno sfogo alle nostre più segrete perversioni. Siamo figli di un mondo che prima di rifiutare chi lo abita ha abdicato a se stesso, prono ai desideri del potente di turno, incapace di rialzare la testa quando la melma l’ha sommersa. E allora di cosa ci si può ancora stupire? Seguo la linea dei collaboratori di questo numero di UT e decido di stupirmi della normalità, di un guizzo del cervello, di un pensiero fugace, di un’emozione che catturo fra mille sensazioni vissute per strada. Mi stupisco del normale, di essere in grado di pensare, di ragionare seguendo le mie corde, di amare un po’, di desiderare ancora che tutto cambi sul serio e non per fare finta. Mi stupisco di essere quello che sono perché non saprei essere diverso. E mi stupisco, in fondo, perché sono ancora in grado di avvertire i battiti di un cuore che ha sempre condizionato pesantemente la mia vita. Mi stupisco di me, perché gli altri non mi stupiscono più.





Il distacco (editoriale per UT)

Il distacco c’è quando lui (o lei) dice: “Il solo pensiero che tu mi possa toccare mi fa stare male”. È un verdetto senza appello. Spesso arriva alla fine di un processo sommario, altre volte è la conseguenza di un cogitare e di un rimuginare che dura mesi, se non anni, e porta all’unica conclusione possibile: “Tutto è compiuto”. Mi sono adoperato parecchio perché questo numero di UT affrontasse il tema del distacco per quello che significa, che è, che comporta. Mi sono affannato a chiarire che il distacco non è una separazione né un abbandono. Il distacco è un taglio netto, definitivo, senza nessuna possibilità di passi indietro neppure a volerne, tanto che quasi sempre si identifica con la morte, fisica o spirituale non importa. Il distacco non ha nessun valore simbolico. Non è un’icona da adattare a una finestra né una tela da incorniciare, solo un lento andare che accompagna passi stanchi e storie senza più alcun senso. Spesso mi sono chiesto quanti distacchi uno possa (o debba) sopportare nel corso di una esistenza, e mi sono risposto che è impossibile calcolarne con esattezza il numero. Accadono. Semplicemente. Proprio come un fatto normale, in una esistenza normale, in un normalissimo ciclo vitale. Sono anche arrivato alla conclusione che non occorre nessuna “elaborazione”, perché quella la lascio ai pavidi. Il distacco si risolve mettendo mano al coraggio, chi lo ha, o all’insensatezza dell’ “è accaduto proprio a me”. Sopravvivere a un distacco è un gesto da eroi del nulla, e quindi da uomini ordinari in possesso di una naturale e innata propensione alla sopravvivenza. Se ci si lecca le ferite deve dominare la convinzione che in quel modo non si curano: si infettano. E allora ha ragione Antonio Gramsci: “Occorre bruciare il passato e ricostruire una vita nuova. Non bisogna lasciarci schiacciare dalla vita vissuta finora...Bisogna uscire dal fosso e buttar via il rospo dal cuore”. Non è affatto facile ma si può. Lui lo ha scritto nel 1932, dopo sette anni di galera. 






Il fascino di un viaggio controvento

Incontro Antonio Liturri, libraio serio. Sto aspettando Vittorio per andare nel suo studio a compiere il mio dovere di soccorso letterario. Ci fermiamo a parlare. Fa caldo. Con Antonio ho qualche mal di pancia condiviso. Non tardo a esternarlo e gli dico: “Ti capita mai di pensare che a gente come noi, muovere un passo che altri farebbero senza nessuna difficoltà, ci costa una fatica della madonna, uno sforzo sovrumano?”. Lui mi guarda e mi dice (serissimo): “Questo succede perché noi viaggiamo controvento”. Ci penso un attimo e mi rendo conto che Antonio ha detto una grande verità. Sono anni ormai, che qualsiasi cosa mi metto in testa di fare ha un costo altissimo, una sfacchinata improba. Penso a coloro che schioccano due dita e tutto accade, poi penso a me e alla difficoltà incredibile che mi costa perfino tentare di articolare pensieri che abbiano un senso. Per non parlare di fatti più terreni, come il campare. Ho di fronte a me cosa significa “viaggiare controvento”, mi rendo conto che non è solo gergalità marinara ma dimensione esistenziale. Il concetto di “normale” e di “normalità” non so neppure cosa siano eppure, giuro, ci provo ad essere normale. La fregatura è che non mi riesce, e che gli altri non è che mi aiutino molto, in questo senso. Il mio concetto di normalità si trova sempre e comunque a combattere contro gli stereotipi, le tare ancestrali, il senso del peccato e quello dell’incupimento di una esistenza trascorsa facendosela scivolare addosso. Senza coraggio, senza la forza di reagire, senza un minimo di prospettive. E io ci casco sempre, come un allocco dal ramo quando viene colto dalla stanchezza o da un attacco di sonno. Poi però accade che all’improvviso, senza neppure avere il tempo di rendermene conto, si profila all’orizzonte un sorta di magia che fa tornare a scorrere il sangue nelle vene e in un attimo mi sbarazza di ogni preconcetto, pregiudizio, pre-idea. Anche questo, come tutti gli altri, sarà un viaggio controvento (non vorrei che il mio amico Antonio la prendesse a male), ma stavolta il compierlo in questo modo è una scelta mia. Come sempre, come è stato e, ne sono convinto, come sarà da ieri.

2 commenti:

  1. Solo un editoriale, chiamiamola "costruzione letteraria con retrogusto simil-biografico", quindi, più credibile.

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