Le mani che accarezzano
(Editoriale per UT)
La
prima volta che ne ho sentita una violenta in faccia avevo tre anni.
Da quel momento, da quelle lacrime più di rabbia che di dolore,
dissi a me stesso che non le avrei mai usate in quella maniera.
E
tanto è stato. Le mani non sono soltanto estremità funzionali per
compiere gli atti quotidiani della vita. Sono molto di più, i
sensori sempre attivi del cervello. In qualche caso ci sarebbe da
dire: meno male, almeno quello. Le mani procurano e ci procurano
sensazioni infinite, basta saperle usare, basta non disperderne il
calore e l'energia. Non serve mica essere pranoterapeuti, occorre
semplicemente essere. Perché le mani stringono, scaldano,
raffreddano, lavorano, suonano, picchiano, schiaffeggiano,
gesticolano, arraffano, stuzzicano, brandiscono, rubano, dipingono,
scolpiscono, sporcano, puliscono, lavano, stirano, accendono il
fuoco, arrotolano sigarette e sigari, stappano bottiglie, turano
bottiglie, nuotano, galleggiano, scrivono, strappano, votano,
scrutinano, prendono, offrono, ritirano, consegnano, reggono,
cucinano, assolvono, benedicono, raccolgono, seminano, mietono,
vendemmiano, levigano, piallano, scartavetrano, visitano, progettano,
allestiscono, vestono, spogliano, frustano, crocifiggono, sventolano,
ammainano e compiono altri mille gesti a volte consapevoli altre
inconsulti. Ma quello che amo di più, il gesto che più di ogni
altro le nobilita, è quando le mani accarezzano. Lievemente,
dolcemente, lasciandosi andare in viaggi che iniziano e potrebbero
anche non finire mai, aggrappandosi a sartie e gomene come ad altre
mani e ad altre braccia. Le mani che accarezzano sono quelle degli
artisti e dei poeti, forse “solo” degli artisti e dei poeti.
Dotate di una sensibilità sorprendente, sanno sempre dove e come
andare, dove e come accarezzare, dove e come far piangere e ridere.
Le mani, più del cervello, sentono e offrono, prendono e danno,
fuggono e restano. Sono le mani, null'altro che dieci dita
indipendenti che vivono di luce propria stampando sulla sabbia solo
l'ombra di se stesse.
Il
fascino del suono del sole e della luna
(Editoriale per UT)
Tanti
anni fa, il Grundig radio/fonografo ne trasmetteva centinaia… di
suoni. Se la sintonia non era all’altezza, oltre ai suoni si
sentivano gracchiate da mandare fuori di testa tutti, ma non me.
Io
amavo i suoni, qualunque essi fossero, e se c’erano quelli più
vicini a rumori piuttosto che a suoni, non faceva niente;
l’importante era che non ci fosse il silenzio. Che il silenzio
avesse una gamma infinita di suoni, me ne sono accorto solo molto
tempo dopo e, da allora, non l’ho mai abbandonato, il mio silenzio.
Il fatto è che con il passare delle stagioni, sono riuscito a dare
un suono a ogni silenzio. Il silenzio della notte non è uguale a
quello del giorno, così come quello dell’inverno non assomiglia
affatto a quello dell’estate. Il sole ha un suono, la luna anche. I
fiori hanno il loro suono e, se mi fermo ad ascoltarle con
attenzione, anche le pietre e… la sabbia. Guai scambiare per
silenzio la calma piatta del mare o un cielo pieno di stelle, i suoni
che trasmettono, aspri o melodiosi, rappresentano spesso solo uno
stato d’animo. Ci sono momenti in cui perfino lo sbattere delle ali
di una farfalla è assordante, mentre in altri, il frangersi violento
delle onde del mare in tempesta sugli scogli, è solo un soffio che
entra prima nella mente poi nel cuore e solo alla fine nelle
orecchie. Cresciuto con il suono (sound) dei Beatles, per un po’ ho
creduto che quello dei Led Zeppelin fosse rumore, mentre non era che
un suono diverso. È partendo da questo presupposto che sono arrivato
alla conclusione che nella musica non esistono rumori ma “suoni
diversi”. Riflettendoci un momento, lo stesso ragionamento può
essere fatto per la vita di tutti i giorni. Non esistono persone,
quelle che incontriamo per strada o al bar o a un concerto o a un
flash mob, paragonabili a rumori, hanno solo un suono diverso.

Travolto dal desiderio
(Editoriale per UT)
Travolto.
Ecco come mi sento. Dall'indifferenza, dal cinismo, dal
pressappochismo, dalla smania di protagonismo, dalla noia (degli
altri) che diventa dannosa, da vite inespresse che si vogliono
esprimere rovinandoti la tua, da gente che sguazza nel pantano e che
per sentirsi viva si agita e tracima. Travolto. Ecco come mi sento.
Dalla mancanza di idee, di coraggio, di forza, di iniziativa, di
farsi largo senza spintonare, denigrare, invidiare, ricattare dicendo
di farlo “in nome di...”. Travolto. Ecco come mi sento.
Dall'insulsaggine, da chi ride per forza e per forza deve farti male
sennò non si appaga. Quindi, da travolto, desidero. Vorrei campare
tranquillo. Di quello che ho e di quello che so fare. Vorrei alzarmi
la mattina convinto che oggi non sarà come ieri, perché ieri,
arrivato alla mezzanotte, mi aveva stancato. Desidero tenere sempre
gli occhi aperti, perché se li chiudo vedo il buio che non è la
mancanza di luce ma di pensieri, di emozioni, di sensibilità mai
peregrine che mi riconciliano con il mondo e la gente, con la natura
e gli animali e mi spinge a fare la “differenziata” facendomi
finalmente comprendere a cosa serve. In un dilagare di monnezza, di
caratteri persi nell'ignavia, di occhi senza sguardo, desidero
andare, mettermi in viaggio e, passo dopo passo, scegliere la
destinazione, anche quella che non esiste, non c'è, non è tracciata
su nessuna mappa di Google. Alla fine il desiderio non è una grande
scommessa. Forse un modo di porsi che non prevede nessuna lampada di
Aladino, perché quella è una favola mentre la vita è un'altra
cosa. E desidero ancora una favola. Una di quelle di mia nonna che
non erano mai favole ma racconti tracimanti sentimenti. Desidero una
favola forse perché la vita mi ha stancato e se si chiama delusione,
non ci posso fare nulla. Però, fuori dal supermercato, sprizza
ottimismo. Lo stesso di chi a pranzo e a cena, vede sempre il
bicchiere pieno perché il vuoto lo ha dentro. Io ci provo, a
desiderare. Non è detto che ci riesca, però almeno ci provo.
La sensualità è uno schermo bianco
(Editoriale per UT)
Potrebbe
essere un’immagine, un bacio colto da un clic di Doisneau a
Montmartre. La si potrebbe intuire, ma occorrerebbe possedere il dono
raro di saperla riconoscere. È madonna sensualità, il sangue che
scorre nelle vene prima di sfociare dove vuole. La prima volta che ci
apparve aveva le gambe di Marlene che cantava al Der blaue Angel.
Il professor Unrath aveva capito tutto. Aveva compreso che le gambe
di Lola-Lola erano qualcosa di più di una visione, rappresentavano
la casa dell’anima avvolta da calze a rete. Per decenni il cinema
ha raffigurato la sensualità attraverso gli arti femminili, le gambe
ma anche le braccia, specie se svelate in tutta la loro carica
ammaliante da un lento sfilare guanti neri di seta. Il sottofondo?
Put the Blame on Mame, naturalmente. Gilda è una delle
figlie predilette di King Vidor che non si accontenta di esaltare
solo la sensualità declinata al femminile, ma anche una carica
omosessuale allora compresa da pochi. Quando per esigenze di copione,
e per una logica commerciale molto indulgente nei confronti del
voyeurismo, a dover essere mostrato era l’intero corpo di una
donna, si ricorreva all’uso dei veli in controluce. Cos’era la
“Divina” Greta in Grand Hotel se non la sublimazione
stessa della sensualità che fa la sua comparsa sulla scena
semplicemente aprendo una porta? Poi arriva un costume bianco e la
storia della sensualità nel cinema subisce un’accelerata che non
avrà più bisogno di frenate isteriche. È lei, Liz Taylor, diretta
da Mankiewicz in Improvvisamente l’estate scorsa. Quel
costume aderente, a mala pena argine di pericolose fuoriuscite,
bagnato dopo un tuffo nell’oceano sarà difficile da dimenticare,
come le “forme” che faceva intuire in un misto di sensualità ed
erotismo che rappresentò allora l’immagine stessa
dell’impossibile. Era stato preceduto da un altro costume da bagno,
questa volta nero, e da un’altra attrice. Deborah Kerr sembra
divertirsi molto quando un irresistibile Burt Lancaster l’avvolge
fra le braccia rotolandosi sulla risacca. È Da qui
all’eternità, e l’eternità sembrò davvero più vicina
di quanto non lo fosse in realtà. All’improvviso tutto cambia,
muta, impazzisce. A subire una vera e propria rivoluzione è l’intero
immaginario collettivo occidentale. Una ragazza con alle spalle un
passato da dimenticare e un futuro in cui il solo sperare rappresenta
un optional, si trasforma da Norma Jean Baker in Marilyn Monroe e
diventa un’icona. È l’immagine stessa della sensualità, la
donna che ne contiene le caratteristiche fondamentali: l’innocenza,
il candore, la voglia di amare e di essere amata, protetta, stimata,
desiderata, conquistata. È quel tipo di sensualità sinuosa e molto
demodé, che ci porta ad accarezzare le sensazioni più che le
realtà. Marilyn non è Lolita, tanto meno Sue Lyon, è
Marilyn anche quando esordisce in un attillato abito rosso e ricopre
il ruolo di assassina. Niagara è l’inizio, la fine è nota
a tutti.
Con
Marilyn inizia e termina quello che per anni è stato il nostro
sentire la sensualità, e non solo nel cinema. Il mito di Marilyn è
legato alla nostra vita di tutti i giorni e alle poche emozioni che
ci regala. Per questo è il più prezioso, il più introvabile,
quello che una volta incontrato non lo si vorrebbe lasciare mai ma
che se ne va, come tutto, come sempre, come accade anche ai miti.
Un peccato chiamato tenerezza
(Editoriale per UT)
C’è
un posto, nell’Iowa, che si chiama Madison County. Esiste davvero,
c’è. E’ attraversato addirittura da tre strade: la 35 Interstate
Highway, la 169 U.S. Highway e la 92 State Highway. Fino al 1995
Madison County era famosa, si fa per dire, per essere stata la
location del Grinta
tanto che i cittadini, memori, dedicarono una piazza all’eroe
americano per eccellenza, John Wayne, protagonista di uno dei film
più brutti della storia di Hoollywood.
Nel
1995 Robert Kincaid, fotografo di mezza età del National Geographic,
capita da quelle parti per un servizio sui ponti coperti, vera
ricchezza storica della piccola e sperduta città dell’Iowa.
L’estate è torrida e il paese quasi deserto. Decide di fermarsi in
una fattoria per chiedere informazioni sui ponti e incontra Francesca
Johnson, una quarantenne dall’aria dimessa che quasi nulla ha da
chiedere ancora alla vita. Francesca è sposata, ha due figli ed è
compresa nel ruolo di moglie e madre frutto anche delle origini
italiane. Robert
è un uomo incantevole, molto dolce, sussurra invece di parlare, si
muove lentamente e quando lo fa sembra volare. Francesca ne resta
affascinata e non può non cadergli fra le braccia, lei che di due
braccia che la tengano stretta ha bisogno quanto l’aria per
respirare. Inevitabilmente l’amore e la passione li travolgono, li
ubriacano di emozioni mai provate, li fa diventare all’improvviso
adolescenti con una vita da sognare davanti, mentre non sono che due
adulti in cerca solo di un perché. Il rapporto fra Robert e
Francesca è amore allo stato puro, e la dolcezza e la tenerezza che
lo contraddistinguono, seguono percorsi a loro sconosciuti, aprono
orizzonti infiniti facendoli vibrare della loro stessa presenza. Si
chiedono come tutto possa essere accaduto, ma di risposte non
riescono a trovarne se non alla fine di quello che è solo un film.
Tornati dalla fiera del bestiame il marito e i figli, Francesca è
costretta a decidere fra l’amore e il ruolo di moglie e di madre.
Sceglie come giusto le sembra per la sua educazione, per la cultura
che si porta appresso dalla nascita, per quel senso di martirio che
accompagna le scelte dolorose fra il lasciarsi andare fra le braccia
della mediocrità o fra quelle che riempiono la vita e il cuore di un
calore senza fine. Sceglie di rinunciare all’amore e di portarsi
appresso, per tutta la vita, il ricordo di quello che poteva essere e
non è stato per una sua scelta, per un obbligo imposto non si sa
bene da chi né per quale ragione. Clint Eastwood e Meryl Streep
danno vita a uno dei più struggenti film d’amore (e di eutanasia)
che siano mai stati girati. Attraversano lo schermo portandosi
appresso talmente tanta tenerezza negli sguardi, nei movimenti, nei
baci, negli abbracci e nelle carezze, da chiedersi come possa finire
un sogno tanto grande. Quando anni dopo Robert Kincaid morirà,
invierà a Francesca la macchina fotografica con cui l’aveva
ritratta sotto i ponti di Madison County. Robert Kincaid farà avere
a Francesca, con la Reflex, i suoi stessi occhi, quelli che nel
frattempo erano restati aperti solo per coglierne ancora un sorriso,
una smorfia, uno sguardo tenero come il sole al tramonto di una
estate torrida, in un posto attraversato da tre strade: la 35
Interstate Highway, la 169 U.S. Highway e la 92 State Highway.
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Soljana
(Racconto breve per UT)
Quando
Mirko fu arrestato era aprile e Soljana aveva tredici anni, l’età
giusta per capire quello che stava accadendo, e per comprendere che
quella era la violenza.
“Soljana,
la cena è pronta, lavati le mani e scendi” – le gridava la
madre.
Il
tempo di scendere le scale di corsa e Mirko le aveva già svuotato il
piatto.
Suo
fratello aveva l’appetito dei venti anni e una voglia incontenibile
di vivere. Amava le donne e amava ancora di più la democrazia
sinonimo di libertà; se ne nutriva a piene mani, come con le
pannocchie di granturco che l’estate divorava in campagna. Era
bello Mirko, e all’università era una sorta di oggetto del
desiderio dell’universo femminile, uno di quei ragazzi belli, bravi
e intelligenti che fanno la felicità di suocere, zie acquisite e
cognate impertinenti. A Mirko però interessavano cose diverse, meno
frivole: la politica e il giornalismo, quello che sarebbe diventato
il suo lavoro e che già faceva per un settimanale indipendente.
Soljana
stravedeva per lui e poco le importava che il piatto di minestra
fosse una facile preda delle fauci del fratello; per lei era un mito,
un ragazzo baciato dalle mille fortune che gli erano piovute addosso
tutte insieme e tutte spudoratamente felici di essersi incontrate
nella stessa ora, nello stesso posto, nella stessa persona.
Quando
arrestarono Mirko, sfondando la porta di casa e rompendogli il naso
con il calcio di un fucile, Soljana aveva tredici anni, l’età
giusta per essere terrorizzata dalla scena che stava vedendo, e
insufficiente per tentare un gesto di ribellione qualsiasi. Mirko
venne portato via a braccia, in una scia di sangue che colorava di
rosso il pavimento di granito grigio. Sentiva le punte delle scarpe
del fratello battere sui gradini della scala, e il ringhiare di cani
arrabbiati che, minacciosi, impedivano a chiunque di mettere il naso
fuori dalla porta. Soljana avrebbe voluto piangere ma decise di non
farlo, si avvicinò all’uscio e guardò fisso negli occhi l’unico
uomo in abiti civili di quel drappello di soldati affamati appena
usciti dalla gabbia delle bestialità. Aveva gli occhi chiari, i
capelli biondi, la faccia pulita e la barba rasata. Indossava un paio
di jeans e un giubbotto di pelle nera, come il novanta per cento dei
giovani di quell’età. Non aveva l’aspetto del carnefice,
piuttosto di un bravo ragazzo appena uscito dalla messa di
mezzogiorno. Decise che quello sguardo non lo avrebbe mai dimenticato
e che quegli occhi, e quella pelle bianca, sarebbero stati il cibo
dei suoi incubi.
Insieme
con i genitori cercò inutilmente di avere notizie di Mirko, ma non
si sapeva dove fosse, dove l’avessero portato, che fine avesse
fatto.
Tutti
conoscevano qual era il destino degli oppositori, perfino quelli
dell’Onu, della Croce Rossa e delle organizzazioni pacifiste
internazionali, ma nessuno muoveva un passo, nessuna voce si levava a
disturbare quello che si stava trasformando in genocidio sotto gli
occhi di tutto il mondo mantenuti, però, rigorosamente chiusi.
Le
famiglie vivevano una sorta di schizofrenia esistenziale, con l’anima
divisa fra la rassegnazione e la speranza. Ma tutto era incertezza,
nebbia puzzolente, prospettive interrotte, urla rimaste in gola per
la paura di provocare una valanga di emozioni devastanti.
Soljana
girava la città alla ricerca dello sguardo che aveva fissato nella
mente e sigillato nel deposito dei ricordi. Fissava tutti negli
occhi, tutti quelli che gli ricordavano l’uomo in borghese arrivato
una mattina a prendersi il fratello. Scrutava sguardi in attesa di
una risposta al suo bisogno di sfogare tutta la rabbia che aveva
dentro, la stessa che si era trasformata in poco tempo in rancore
fino all’esplosione nell’universo malato della voglia di
uccidere.
Quando
arrestarono Mirko, Soljana aveva tredici anni e scoprì che la
capacità di odiare non aveva età, arrivava prepotente in un attimo
e sarebbe restata per sempre.
Fu
all’uscita di scuola che ritrovò quello sguardo, era lui, era lì
e non aveva dubbi. Sigaretta
in bocca, mani in tasca, era un ragazzo normalissimo, del tutto
simile a quelli che avevano ancora venti anni, come Mirko, suo
fratello, arrestato una mattina d’aprile e mai più rivisto.
La
rabbia e la disperazione le stavano divorando lo stomaco e sarebbero
arrivate presto al cuore e al cervello. Strinse le mani a pugno fino
a sentire le unghie scavarle la carne giovane e il caldo delle gocce
di sangue uscirle lentamente. Lo fissava con disprezzo, ma anche con
un orgoglio e una dignità che la violenza aiuta a crescere in
fretta. Era in mezzo alla strada e le macchine le correvano ai lati,
come un fiume che all’improvviso si biforca.
Era
impossibile non vederla, non guardare quella ragazzina magra con lo
sguardo fisso e allucinato che sembrava perdersi nel vuoto della
solitudine. Anche lui la guardò, prima sogghignando poi sempre più
intensamente, come se quel vestito ben stirato gli ricordasse altri
vestiti indossati da donne a cui era stata sottratta la dignità. La
riconobbe. Per un istante sembrò stesse rivivendo anche lui la scena
recitata da protagonista in casa di Soljana. Si mise a camminare a
passo svelto, una fuga da due occhi che non riusciva a fissare, da
uno sguardo che lo stava penetrando nell’anima. Soljana lo vide
girare l’angolo e sparire nei vicoli della città vecchia. Aveva
tredici anni quando Mirko, suo fratello, fu arrestato. Era aprile e
“buonasera Belgrado libera” sarebbe risuonata solo qualche anno
dopo in una piazza gremita di gente e gonfia di musica. Era il 5
ottobre del 2000.
Dedicato
a Soljana. Aveva tredici anni quando il regime di Milosevic decise,
autonomamente, che il fratello studente e giornalista, aveva vissuto
il suo tempo.

Iridata nei riflessi, bianca come la morte
(Editoriale per UT)
Pianificando
i temi del terzo anno di UT abbiamo pensato alla “fantasia” come
momento fondamentale del nostro modo di porci. Cosa può spingere
altrimenti tre persone dotate di raziocinio a intraprendere un
viaggio come quello di UT se non una dose anomala di fantasia?
Siamo
partiti da un’idea fantastica ed eccoci qui, a metà cammino del
terzo anno di vita di una rivista che non finisce mai di stupire. La
nostra fantasia si è nutrita dei libri di Salgari e dei film di
Charlie Chaplin. Passando attraverso gli eroi di De Amicis e le
immagini del neorealismo ci siamo resi presto conto di possedere una
fantasia malata, quella che rende umani gli uomini e sublima la
dignità. Quanti, troppi voli nella nostra vita per non avvertire il
bisogno di planare dolcemente, guardarsi intorno e riprendere a
volare perché altrimenti non sarebbe la nostra esistenza, non se ne
nutrirebbe il nostro amore, non vedremmo il mondo intorno con occhi
diversi. E non è un problema di intelligenza ma di sensibilità. E
non investe il cervello ma il cuore e i muscoli che sopravvivono
grazie ai suoi battiti. Non occorre essere vedenti, non importa
essere credenti, non basta saper disegnare l’isola che non c’è o
fotografare un mendicante al tramonto. È sufficiente che la mente
sia sgombra, che il deserto ci circondi, che non si sentano né spari
né urla. Basta questo perché la fantasia esista, ci sia, ci rotoli
intorno e ci si insinui dentro, come lo spillone di Cio Cio San che
tradita da Pinkerton, fantastica su una nave all’orizzonte che non
arriverà in tempo per la vita.
È
la fantasia che si trasforma in desiderio, in passione, in gioia e
nel dolore più profondo quella che i nostri collaboratori (tante
collaboratrici), hanno delineato per questo numero estivo di UT. Come
sempre ci sono loro, i collaboratori, coloro che UT la redigono
materialmente a dispetto dei condizionamenti e di una libertà che in
molti stanno cercando di ridurre a una enorme bolla d’aria: iridata
nei riflessi ma bianca come la morte. L'indiscrezione è per cuori forti
(Editoriale per UT)
La
discrezione mi è sempre apparso un atteggiamento più da baciapile
che non da gentiluomo di campagna. Fare tutto in modo discreto
nasconde una ipocrisia di fondo che urta, infastidisce, obnubila e
cela. È il modo un po’ misterioso di coprir corna e misfatti.
Perfino chi ruba è discreto, perché se lo facesse alla luce del
sole che ladro sarebbe? Verrebbe scambiato per un provetto
prestigiatore, un redivivo Houdini. Così alla discrezione ho sempre
preferito l’indiscrezione di chi vuol capire non accontentandosi di
prendere atto. E tanto è ipocrita la discrezione, quanto
maledettamente eccitante l’indiscrezione. Chissà perché poi, nel
corso del tempo, l’occhio indiscreto (ma è solo un esempio), è
sempre stato scambiato per lo sguardo del voyeur che ama il buco
della serratura o la siepe di un giardino, anfratti buoni per spiare
gli altri e per dare un fugace quanto inconcludente attimo di
turbamento furtivo allo spione. Ma furtiva è la lagrima
cantata dalla lirica di Donizetti e furtivi sono i baci canoviani di
Amore e Psiche, e su
quella e questi si posa l’attenzione degli uttiani mai domi nel
cercar sensi e dare definizioni. Così, indiscreto diventa l’occhio
del ragazzino che penetra i misteri della vita guardandosi intorno
con fare esplorativo, perché sa benissimo, da subito, che nulla è
come appare e che un’occhiata discreta non gli consegnerà mai il
senso delle cose. Così indiscreto diventa il cuore di chi vede la
morte intorno a sé e inizia a battere asincrono in attesa che tutto
si compia. E indiscreto è l’avanzare lento di una emozione, che
entra negli occhi penetrando il cervello di chi ha ancora voglia di
pensare, perché il resto è pattume. Apparentemente leggero, il tema
dell’indiscrezione si rivela invece per quello che è, non un
affare da amanti persi del gossip, ma di gente che vede la vita per
com’è (dura) e non per come appare (una passeggiata). Noi
indiscreti siamo fatti così, non ci accontentiamo di guardare
soltanto, perché non è vero che gode chi si contenta, chi lo fa
sopravvive, lasciando agli altri l’eccitazione di ciò che resta.

L'infinito finito
(Editoriale per UT)
È
lo stacco drammatico di un paesaggio che si interrompe, l’infinito
finito della nostra anima. Profondamente distonici, ci capita a volte
di pensare all’infinito come alla migliore via di fuga da una
realtà rifiutata. Ma ci rendiamo conto che si tratta solo di una
linea d’orizzonte mal tracciata che nulla concede alla fantasia
mentre indulge alla rassegnazione. Succede quando arriva la
malinconia, la tristezza fa rima con pochezza, il sogno si trasforma
in inganno. Succede spesso perché il nostro infinito non sta nei
profili delle colline recanatesi né nell’orizzonte del mare piatto
di fine luglio ma oltre, dopo, dove non si vede e lo si può solo
idealizzare. E noi puntiamo a quell’infinito, a quello
intracciabile e indefinibile perché altrimenti che infinito sarebbe?
Allora ci rifugiamo nella poesia, nelle rime e nei sonetti, nei canti
e nei calembour perché è in quei luoghi che l’infinito trova la
sua ragione di essere, si eleva e gorgheggia come un soprano la
Turandot. Una poesia non è mai finita. La viviamo come uno svolgersi
di sensazioni, di emozioni non più latenti alle quali un punto non
mette fine rappresentando l’inizio di un’altra storia. Nella
poesia ci tuffiamo come nella musica perché anche se le note sono
sette e le parole sono scritte tutte nei dizionari, conta come si
miscelano, si confondono, si attorcigliano, si slargano e alla fine
capiamo che l’infinito sta proprio lì, nell’’enne’ soluzioni
possibili di una canzone, di una frase melodica, di un inno d’altri
tempi, di un racconto scritto con i piedi perché la penna non basta.
Noi abbiamo un bisogno ancestrale di muoverci, di andare, di iniziare
il viaggio verso l’infinito alla ricerca solo di noi stessi perché
agli altri del nostro viaggio non interessa, non li affascina, non li
ammalia. Preferiscono la comodità di una casa, la tranquillità di
uno sguardo, la stabilità di mura finte come coloro che ne sono
circondati. Ma forse si tratta di assedio e dagli assedi si esce
infinitesimando l’arsura.
Ho
visto angeli cadere
(Editoriale per UT)
Ho
attraversato meridiani e paralleli cercando di non pensarci. Credo di
aver preso decine di aerei senza la curiosità morbosa di mettere in
ordine alfabetico le Compagnie con le quali ho volato.
Però
l’ho fatto, ho volato. E ogni volta che sono atterrato da qualche
parte, le cose da fare erano mille e una sola: raccontare. Così ho
scritto storie vere cercando di renderle meno vere per non ferire gli
animi candidi di una pletora di occidentali tronfi della loro
saccenteria e grassi della loro immensa ignoranza. Ho raccontato
storie di bambini e di donne, di uomini, tanti, con i quali ho avuto
la fortuna e la sfortuna di imbattermi. Ho visto lucciole cadere da
un cielo stellato ma non erano lucciole, erano bombe e neppure troppo
intelligenti. Mi è capitato di imbattermi in violenze che nulla
avevano di umano, se di umanità si può parlare quando si lascia una
gamba su una mina antiuomo di fabbricazione italiana e quella gamba è
di un bambino. Cosa ci faceva proprio lì? Forse voleva solo giocare.
Ma questa è una risposta che i mercanti non vogliono né ascoltare
né recepire, facendo finta che il mondo va alla grande, come le
figlie di madama Dorè, quelle sempre belle, carine e disponibili
delle giostre idiote delle convenzioni. È capitato di avvertire
forte, anzi fortissimo, addirittura devastante, l’odore della carne
bruciata e dello zolfo manco fosse l’inferno.
E
forse lo era l’inferno. E forse i demoni non avevano né corna né
forconi, solo una divisa.
Ci
sono calci di fucile che entrano dritti fra le costole e ti ritieni
fortunato perché è solo un pezzo di legno e non di piombo. Capiti
fra i malati di Aids e conti le mosche che devastano corpi senza più
identità e si infilano in occhi che non desiderano altro che di
chiudersi per sempre, e ti rendi conto che l’idiozia delle
religioni quei corpi li deve tenere ancora in vita, l’espiazione
nel dolore, la sofferenza come catarsi.
Incontri
Jashim che ha sei anni, una gamba, un braccio, e due occhi che
sorridono sempre, riaccendendo l'illusoria speranza che nulla è
perso. A Jashim basta poco, un “ciao” per farlo sentire il
padrone del mondo. Ti risponde con un altro “ciao” e parla di
Roberto Baggio come fosse un suo amico. Poco oltre, di storie come
quella di Jashim, ne ascolti tante. E così senti Nana che, stanca
delle botte del marito e della famiglia del marito e della sua
famiglia, mette in un sacco l’ultimo rigurgito di orgoglio e arriva
in un campo profughi non senza essere stata violentata strada
facendo. Il mondo, alla fine, è racchiuso in un fiume d’ira,
magari lo stesso che bagna i piedi di dittatori sanguinari che
l’Occidente tiene sul trono perché “conviene”. E allora l’ira
aumenta, si mischia con l’impotenza, e ci si rende conto che di
belle parole, di sogni ad personam, del mercato delle illusioni a
poco prezzo non sappiamo che farcene. E allora, chi si permette di
denunciare genocidi e di rivendicare la libertà per il suo popolo,
viene trattato alla stregua di un rompiscatole qualsiasi adducendo
avvilenti “ragioni di stato”. Ci sono le olimpiadi, e c’è il
petrolio, e ci sono i diamanti, e il rame maledetto, e il silice, e
l’acqua, e tutte le confindustrie del mondo. Non possiamo parlare
di diritti umani e forse, alla fine, Tien An Men è stato solo un
film, l’uranio impoverito una invenzione della propaganda
sovversiva, il napalm una crema abbronzante, i gas nervini un
fertilizzante che qualcuno ha adoperato per aiutare i curdi a
coltivare le loro terre riarse. Vorrei prendere per mano Jashim e
provare a fare un girotondo con lui. Magari cantandogli una canzone
stupida. O forse solo per raccontargli la storia di Roberto Baggio
che un rigore, qualche tempo fa, lo sbagliò anche lui.
La
solitudine
(Editoriale
per UT)
Se
la si lascia giocare da sola la soluzione è il suicidio. E a volte
la voglia c’è. La solitudine in una perfetta alternanza di
sequenze e di controsensi dilania, deflagra, è più rumorosa di una
scarica di mortaretti la notte di Capodanno, quello che c’è,
quello che verrà, quello che non ci sarà. Ci si guarda nello
specchio e ci si sente soli. Vedi le tue rughe, gli occhi cerchiati
da una notte d’inferno, la pelle che si desquama e la fronte sempre
più spaziosa e pensi: sono solo, maledettamente,
incontrovertibilmente solo. Ti dai un’ultima occhiata nella
speranza che in pochi istanti qualcosa sia cambiato ma non è
cambiato niente. Forse tu, però è improbabile. Vieni da giorni in
cui hai provato a scherzarci, a blandirla, ad affascinarla, a
conquistarla ma lei ti è sempre sfuggita, sparita fra le dita
proprio mentre hai cercato di stringerla, di sentirne la sostanza, di
viverla come idea. Ti rendi conto che è sparita solo per entrarti
dentro. La senti mentre ti prende allo stomaco, mentre ti prosciuga
la bocca e ti riempie gli occhi di lacrime, quelle che sanno di
amaro. Ti provoca sussulti, tremori, balbettii proprio mentre le
parole ti sarebbero utili, indispensabili per discutere con te, per
trovare un senso a tutto quello che ti sta scorrendo intorno senza
sentimento e senza direzione. Per la prima volta nella tua vita
cerchi un compromesso, un modo di conviverci senza danni
irreversibili, senza che l’anima si perda in mille rivoli di una
non comprensione mortale. Ti rendi conto che ogni compromesso è
inaccettabile anche se inevitabile e tu, all’inevitabilità non hai
mai creduto. La solitudine non è figlia del destino né di un fato
gramo e contro di per sé. È tua figlia, l’hai creata tu,
cresciuta tu, sfamata tu quando avresti avuto bisogno di tutto il
resto meno che di lei. È un rapporto perverso, incestuoso quello che
hai con la solitudine, ma è l’unico che conosci e non puoi farci
nulla se non subirlo. Ma un conto è subire altro soccombere e tu non
vuoi arrenderti. Prendi il coraggio, te lo poni davanti e come si fa
con gli amici, gli domandi: “che faccio?” Come fanno gli amici
veri non ti darà risposte, non sputerà sentenze, non tenterà di
condizionare la tua vita. Tacerà aspettando insieme con te un
qualsiasi giorno migliore.
Menti
offuscate. Fiori recisi.
(Editoriale per UT)
Ha
più colori dell’arcobaleno ma, alla fine, è sempre la stessa. Si
chiama violenza, esiste da sempre, e si esplicita nelle forme più
disparate, visibili e meno visibili, più o meno spettacolari. Ad
essa ci siamo abituati come gli inglesi al tè delle cinque, è una
delle nostre compagnie ricorrenti anche quando vorremmo non ci
sfiorasse. Con il tempo si è raffinata ed ha assunto caratteristiche
fino a ieri impensabili. La prima è quella che affrontiamo
quotidianamente e riguarda la nostra intelligenza. Viene violentata
da chi vorrebbe manipolarla, condizionata dalle menzogne (che sono
anche loro forme di violenza) di chi non ha altri mezzi per creare un
obbrobrio in termini che si chiama consenso e che viene inseguito
calpestando persone e dignità. La seconda è quella che fa scempio
dei diritti saccheggiando doveri. Il lavoro negato, l’ambiente
devastato, l’impossibilità di curarsi per vivere decentemente, la
negazione della piena libertà di espressione, l’oppressione, le
intimidazioni, i ricatti di un mondo sempre più proiettato verso
un’omologazione voluta da potenti e potentati, e avallata da
servi, maggiordomi, nani e ballerine. Poi c’è la terza ed è la
peggiore. La chiamano “bianca” ed è il delitto più feroce,
quello contro esseri che non sono in grado di difendersi da chi, alla
loro difesa, dovrebbe provvedere per mandato divino. E se in questo
caso la parola “perdono” è lontana dai nostri pensieri, e dalla
nostra intelligenza, il senso di disgusto che ci pervade è quasi
simile all’indignazione che ci travolge. Questo numero di UT non
poteva che partire da un ritratto forte di violenza “bianca” per
finire a quella che ci è più conosciuta e che riguarda l‘eterno,
violento rapporto fra i deboli e i forti. Per la prima volta nella
sua breve vita, UT ha lasciato ai collaboratori la libertà di
ricorrere alla cronaca, al reale, alla vita vissuta e ai titoli dei
giornali. Per la prima volta, la “musicalità” che
contraddistingue la nostra rivista dalla nascita, si interrompe
perché quello che vorremmo fosse solo un brutto film dell'orrore, è
la prassi a cui lentamente ci si sta assuefacendo incapaci di urlare
“ci siamo stancati, tutto questo non lo tollereremo più”.
(editoriale per UT)
Mi
piacerebbe aprire tutte le porte che non ho aperto e percorrere le
strade che non ho percorso. Dietro ogni porta poteva esserci un mondo
altro, una vita, una storia. Lungo le strade salite e discese, sassi
e pozzanghere, forse un prato umido. Mi sono sempre chiesto cosa
celasse un’asse di legno verticale trasformata in porta da una
toppa e una maniglia: probabilmente l’universo, forse il mondo
intero, magari il mistero. È sull’ignoto che molte volte ho
puntato la barra cercando di penetrarlo quasi fosse nebbia, o vapore
o solo un fumo denso. È il mistero che mi ha accarezzato quando ho
dato tutto per vissuto o per già visto, ed è sempre stato il
mistero, e il gusto di assaporarne l’inconsueto, che mi ha fatto
capire che vale la pena svegliarsi la mattina.
La
bellezza del mistero e dell’ignoto è pari alla forza della
fantasia che riesce a dare corpo e anima alle ombre, e più si
infittisce più cattura, e più si addensa più intriga. È la voglia
di navigare in mezzo al mare o quella di accodarsi a una carovana che
percorre il deserto rosso. È riuscire a coglierne l’essenza
profonda, e non la parvenza di un tragitto da percorrere o di miglia
da traversare in attesa del porto; l’ignoto non ha porti né oasi,
non collega strade, non ha un piano regolatore.
Il
mistero non si pone obiettivi, vive di se stesso e fagocita le
intelligenze più e meglio del gorgo delle sensazioni veementi,
dirompenti, dilanianti ma vitali dell’esistere; più, e meglio, di
una sera d’inverno trascorsa ad ascoltare storie.
Il
mistero e l’ignoto rappresentano il mondo del bambino che cresce
scoprendo ogni giorno, ogni ora, ogni istante della sua esistenza che
le cose da conoscere e da capire sono mille e ancora mille e mille
più mille ancora. Vola il mistero. Sulle ali di cosa nessuno lo sa,
anche perché come si può capire il mistero? Lo fa scavalcando monti
e percorrendo valli e insinuandosi laddove solo un amore grande può
entrare, nel profondo dell’anima che non ha dimensioni, né misure,
né voglia di essere normale.
Penso
alle fate e il mistero mi riavvolge. Quelle rosse, quelle bianche e
quelle turchine. Sono le fate delle favole e della vita vera se si ha
la fortuna di incontrarle. Non è vero che sono in possesso di una
bacchetta magica anzi, in mano non hanno che coriandoli e stelle
filanti, ma si portano appresso molto di più: i sogni. C’è chi ha
una paura folle dell’ignoto, e lo fugge come fosse un peccato. E
non è l’ignavia a fermarli ma il pessimo rapporto con la loro
fantasia. Ci si impedisce di sognare non avendo la forza di farlo e
tutto quello che appare, e che non è consueto, genera terrore, come
se la scoperta fosse un gioco di società e la vita una roulette
russa da combattere a colpi di “stavolta è andata”.
È
bello il mistero, ed è di una bellezza rara perché non ha fattezze
se non quelle che si immaginano chiudendo gli occhi e passeggiandoci
a fianco con il rischio di cadere. È bello l’ignoto e la sua
bellezza è tutta racchiusa nella possibilità di percorrerlo senza
porsi domande e senza chiedersi mai perché: basta volare, aprire le
ali e sbatterle dando loro un senso.
Lo
stupore degli sciocchi
(editoriale per UT)
(editoriale per UT)
Ohhh...
Sembra di assistere alla proiezione di un film ricco di effetti
speciali. Ormai lo stupore si accompagna all’irreale perché la
realtà, quella che transita attraverso le 24 misere ore di una
giornata, non stupisce più nessuno. Si tratti di guerre, di crisi,
di scandali o di burlesque, tutto è scontato, privo di sorprese,
piatto e pianificato come un giornale di gossip che tira fuori lo
scoop al momento giusto. Non stupisce più l’efferatezza né la
violenza spicciola, non stupisce più l’amore né l’odio. I
nostri occhi e i nostri cuori si sono assuefatti, inariditi,
spogliati della loro essenza: guardare e amare. Così lo stupore è
diventato prerogativa dei bambini, è il loro regno incontaminato, la
loro ancora di salvezza, sempre che abbiano genitori intelligenti,
altrimenti... Persa l’ingenuità, ci siamo trasformati in un’armata
delle tenebre che sconta l’ignoranza e la mancanza di curiosità,
l’amore per la vita e per le cose che la vita rendono (almeno)
vivibile. Ci si affida agli sciocchi e ai violenti sperando, da una
parte, di trovare un alibi alla nostra superficialità, dall’altra
uno sfogo alle nostre più segrete perversioni. Siamo figli di un
mondo che prima di rifiutare chi lo abita ha abdicato a se stesso,
prono ai desideri del potente di turno, incapace di rialzare la testa
quando la melma l’ha sommersa. E allora di cosa ci si può ancora
stupire? Seguo la linea dei collaboratori di questo numero di UT e
decido di stupirmi della normalità, di un guizzo del cervello, di un
pensiero fugace, di un’emozione che catturo fra mille sensazioni
vissute per strada. Mi stupisco del normale, di essere in grado di
pensare, di ragionare seguendo le mie corde, di amare un po’, di
desiderare ancora che tutto cambi sul serio e non per fare finta. Mi
stupisco di essere quello che sono perché non saprei essere diverso.
E mi stupisco, in fondo, perché sono ancora in grado di avvertire i
battiti di un cuore che ha sempre condizionato pesantemente la mia
vita. Mi stupisco di me, perché gli altri non mi stupiscono più.
Il
distacco (editoriale per UT)
Il
distacco c’è quando lui (o lei) dice: “Il solo pensiero che tu
mi possa toccare mi fa stare male”. È un verdetto senza appello.
Spesso arriva alla fine di un processo sommario, altre volte è la
conseguenza di un cogitare e di un rimuginare che dura mesi, se non
anni, e porta all’unica conclusione possibile: “Tutto è
compiuto”. Mi sono adoperato parecchio perché questo numero di UT
affrontasse il tema del distacco per quello che significa, che è,
che comporta. Mi sono affannato a chiarire che il distacco non è una
separazione né un abbandono. Il distacco è un taglio netto,
definitivo, senza nessuna possibilità di passi indietro neppure a
volerne, tanto che quasi sempre si identifica con la morte, fisica o
spirituale non importa. Il distacco non ha nessun valore simbolico.
Non è un’icona da adattare a una finestra né una tela da
incorniciare, solo un lento andare che accompagna passi stanchi e
storie senza più alcun senso. Spesso mi sono chiesto quanti
distacchi uno possa (o debba) sopportare nel corso di una esistenza,
e mi sono risposto che è impossibile calcolarne con esattezza il
numero. Accadono. Semplicemente. Proprio come un fatto normale, in
una esistenza normale, in un normalissimo ciclo vitale. Sono anche
arrivato alla conclusione che non occorre nessuna “elaborazione”,
perché quella la lascio ai pavidi. Il distacco si risolve mettendo
mano al coraggio, chi lo ha, o all’insensatezza dell’ “è
accaduto proprio a me”. Sopravvivere a un distacco è un gesto da
eroi del nulla, e quindi da uomini ordinari in possesso di una
naturale e innata propensione alla sopravvivenza. Se ci si lecca le
ferite deve dominare la convinzione che in quel modo non si curano:
si infettano. E allora ha ragione Antonio Gramsci: “Occorre
bruciare il passato e ricostruire una vita nuova. Non bisogna
lasciarci schiacciare dalla vita vissuta finora...Bisogna uscire dal
fosso e buttar via il rospo dal cuore”. Non è affatto facile ma si
può. Lui lo ha scritto nel 1932, dopo sette anni di galera.
Il
fascino di un viaggio controvento
Incontro
Antonio Liturri, libraio serio. Sto aspettando Vittorio per andare
nel suo studio a compiere il mio dovere di soccorso letterario. Ci
fermiamo a parlare. Fa caldo. Con Antonio ho qualche mal di pancia
condiviso. Non tardo a esternarlo e gli dico: “Ti capita mai di
pensare che a gente come noi, muovere un passo che altri farebbero
senza nessuna difficoltà, ci costa una fatica della madonna, uno
sforzo sovrumano?”. Lui mi guarda e mi dice (serissimo): “Questo
succede perché noi viaggiamo controvento”. Ci penso un attimo e mi
rendo conto che Antonio ha detto una grande verità. Sono anni ormai,
che qualsiasi cosa mi metto in testa di fare ha un costo altissimo,
una sfacchinata improba. Penso a coloro che schioccano due dita e
tutto accade, poi penso a me e alla difficoltà incredibile che mi
costa perfino tentare di articolare pensieri che abbiano un senso.
Per non parlare di fatti più terreni, come il campare. Ho di fronte
a me cosa significa “viaggiare controvento”, mi rendo conto che
non è solo gergalità marinara ma dimensione esistenziale. Il
concetto di “normale” e di “normalità” non so neppure cosa
siano eppure, giuro, ci provo ad essere normale. La fregatura è che
non mi riesce, e che gli altri non è che mi aiutino molto, in questo
senso.
Il
mio concetto di normalità si trova sempre e comunque a combattere
contro gli stereotipi, le tare ancestrali, il senso del peccato e
quello dell’incupimento di una esistenza trascorsa facendosela
scivolare addosso. Senza coraggio, senza la forza di reagire, senza
un minimo di prospettive. E io ci casco sempre, come un allocco dal
ramo quando viene colto dalla stanchezza o da un attacco di sonno.
Poi però accade che all’improvviso, senza neppure avere il tempo
di rendermene conto, si profila all’orizzonte un sorta di magia che
fa tornare a scorrere il sangue nelle vene e in un attimo mi sbarazza
di ogni preconcetto, pregiudizio, pre-idea. Anche questo, come tutti
gli altri, sarà un viaggio controvento (non vorrei che il mio amico
Antonio la prendesse a male), ma stavolta il compierlo in questo modo
è una scelta mia. Come sempre, come è stato e, ne sono convinto,
come sarà da ieri.
Messaggi subliminali?
RispondiEliminaSolo un editoriale, chiamiamola "costruzione letteraria con retrogusto simil-biografico", quindi, più credibile.
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