… il
bello della vita è proprio l'imperfezione, il marchio della
diversità, la ricchezza dei tratti originali che sfuggono al
grigiore delle convenzioni... (Maurizio
De Giovanni)
Una
Biennale, lo dice la parola stessa, è una manifestazione che si
ripete con scadenza regolare: due anni. Questo fa supporre che
terminata una edizione, ci si appresti a organizzare quella
successiva avendo di fronte lo stesso spazio temporale durante il
quale conoscere, incontrare, scegliere, proporre, invitare artisti.
Il tempo dato per questa VI edizione di Casoli Pinta, è stato invece
di due mesi e, considerato agosto notoriamente dedicato a tutto
fuorché al lavoro, ciò che abbiamo avuto a disposizione può essere
racchiuso nel pugno di una mano; riassumendo, un po' di giorni.
Nonostante
tutto, avendo le idee abbastanza chiare su quali passi muovere e
quali contatti prendere, il lavoro è stato frenetico sì ma anche
estremamente appagante e, aspetto più importante, coerente con la
nostra linea di pensiero.
In fondo,
abbiamo messo in pratica quello che è diventato da qualche tempo un
chiodo fisso, una elaborazione culturale che possiamo riassumere in
una serie di domande: come si muove l'Arte Contemporanea oggi, quali
tratti comuni possono essere presi in considerazione per continuare a
parlarne senza voltarsi indietro e senza attualizzare un passato
nobile, per carità, ma sempre passato. E, infine, che valore dare al
tratto imperfetto figlio di un cuore che batte e che senso dare,
invece, alla pseudo-perfezione derivante da un puro astratto
scolastico? Prendiamo come esempio (altrettanto nobile) la musica.
Quasi tutti i musicisti studiano e si diplomano al Conservatorio.
Sono pochi quelli che non lo fanno e riescono comunque a raggiungere
vette inarrivabili, in Italia forse un paio, Luciano Pavarotti e
Lucio Dalla. Ebbene, i musicisti che escono dal Conservatorio, al 99
per cento sono bravi, ottimi strumentisti in possesso di una tecnica
sopraffina, degni orchestrali di fila con metronomo incorporato,
leggono un pentagramma e non sbagliano né il tempo né una nota.
Pochissimi di loro, però, diventano concertisti, solisti, esecutori
di levatura mondiale, musicisti che aggiungono quel tocco in più che
distingue impietosamente i geni dagli impiegati del catasto. Una
volta, un nostro amico più volte brassman dell'anno, secondo la
classifica della BBC, ci disse: “Al mondo ci sono musicisti molto
più tecnici di me, più veloci di me da sembrare extraterrestri,
eseguono cascate di note con una facilità estrema ma, allora, perché
scelgono me? Una risposta ce l'ho, per l'anima. Io ce la metto e me
la gioco in ogni concerto”. La discriminante, in fondo, è proprio
questa: a parità di bravura tecnica, vince chi ci mette l'anima e,
per dirla con una frase scontatissima ma mai banale, butta il cuore
oltre l'ostacolo.
La nostra
ricognizione nel mondo dell'arte per questa VI edizione della
Biennale Casoli Pinta, si è basata proprio sulla ricerca di chi,
oltre alla bravura tecnica che tutti possiedono, nelle sue opere
mette quel tocco in più che lo rende speciale, immediato,
accattivante, coinvolgente e in grado di dipingere quella poesia muta
sulla tela di cui favoleggiava Leonardo da Vinci.
In un
lavoro compiuto essenzialmente su Internet visitando siti e ricevendo
decine di immagini, il nostro tentativo è stato quello di proporre
un tipo di arte che non fosse scontato né totalmente imperfetto, che
parlasse al cuore oltre che agli occhi, che eccitasse la nostra
capacità sinestetica di avvertire odori, terzine e quartine dietro
ogni colore, di seguire con attenzione il racconto che si sviluppava
attraverso tratti, pennellate, spatolate, manipolazione di materiali
apparentemente inerti ma quanto mai vivi, di mostrare, insomma, quel
quid che fa la differenza e ci rende consapevoli del fatto che siamo
di fronte a un'opera d'arte e non al risultato di un giocoso (ma
pericoloso) rito mercantile.
Il valore
aggiunto è, appunto, il cuore, che inizia a battere freneticamente
quando si rende conto che gli stimoli ricevuti dal cervello e captati
dagli occhi, sono quel qualcosa di intangibile che si chiama emozione
e, andando oltre, magia.
Avendo
scelto le opere secondo un criterio soggettivo, sappiamo di esserne i
responsabili unici, di avere sulle nostre spalle tutta la
responsabilità che operare una scelta piuttosto che un'altra
comporta, di metterci, infine, la faccia e la credibilità.
D'altronde la vita, oltre a essere un gioco, è una meravigliosa
scommessa prima con sé stessi e poi con gli altri, e se così non
fosse, avremmo fatto i già nominati (senza offesa per carità)
impiegati del catasto. Poi, per non farci mancare nulla, avendo sul
monitor l'insieme delle opere e prendendo atto che gli spunti di
partenza sono i più diversi (da Carrà a Mirò, da Picasso a Bosch,
da Bacon a Pollock, da Modigliani a Renoir, da Schifano a Fontana, da
Kandisky a Warhol fino a Picasso, Haring, Rothko e Basquiat), siamo
arrivati alla conclusione che parecchi degli artisti invitati stiano
percorrendo una loro strada nel vastissimo, eterogeneo, fantasioso
mondo dell'Arte Contemporanea e che continuare a parlare oggi di Arte
Contemporanea, facendo riferimento ai maestri del passato recente,
rappresenta un vero e proprio azzardo.
Siamo in
una fase “oltre”, a un momento post-Cattelan (genio sì, ma gran
furbo), a una visione dell'arte che è contaminazione continua,
sintesi e proposizione del mare di immagini nel quale siamo immersi
da quando la comunicazione è diventata, di fatto, globale.
Distinguere in categorie artistiche e di mestiere, cosa possibile
fino a un decennio fa, è diventato un risiko, una sorta di battaglia
navale nella quale se si colpisce un incrociatore, non è detto che
la grande nave affondi. Pittori, scultori, disegnatori, fumettisti,
architetti e geometri, fotografi, tatuatori, web-designer e
mail-artist oggi si fondono senza che fra di essi esista più una
linea certa di demarcazione.
L'Arte
Contemporanea è ormai fuori da ogni contesto “classico”, fuori
da qualsiasi mischia intellettuale e si avvia velocemente a proibirsi
ogni semplicistica concettualizzazione.
E lo stesso
percorso lo ha intrapreso la critica d'arte, quella che costruisce e
demolisce geni e imbrattatele travestiti da geni. È impossibile
continuare ad abusare degli stessi, rigidi concetti che l'hanno resa,
al pari della critica cinematografica e musicale, incomprensibile ai
più. È fuori dal mondo descrivere l'opera di un artista basandosi
su schemi che hanno fatto il loro tempo. Il “distruggere altri per
valorizzare l'artista protetto” è un gioco al massacro finito
perché, fortunatamente, oggi un'opera d'arte che voglia definirsi
tale, vive di luce propria e non riflessa, non è la somma di stili
di altri ma l'espressione di uno stile personale, di un modo di
intendere la vita, il mondo, il contesto sociale che ci circonda.
È
diventata, finalmente, quella “poesia silenziosa” tanto amata dai
cuori semplici, da coloro che guardano un'opera e sognano, da chi è
in grado, ancora, di emozionarsi. Il concetto di arte, volenti o
nolenti, è universale e unisce culture e tradizioni le più diverse
riducendone le distanze, valorizzando i “punti” degli aborigeni e
le “maschere” delle deità africane, l'uso del ferro, del
cristallo, dell'acciaio con quello sempre vivo della carta e della
tela. Dall'incontro di figure, di spazi, di forme nasce “il
racconto” che si sviluppa attraverso le intuizioni della
letteratura, i pentagrammi di una composizione musicale, le sequenze
di un film. Oggi è impossibile continuare a considerare un'opera
d'arte un momento a sé stante. È la somma di tendenze diverse che
sollecita la fantasia, intenta a sondare un quadro o una scultura o
una fotografia, a sentire le note di Tom Waits mentre canta
BlueValentine
e a vedere le sequenze di Blade
Runner contemporaneamente.
È il modo
di avvicinare all'arte avvicinando la gente a “tutta l'arte” e
non a “esclusività”, come si è verificato fino a ieri. È il
modo di raccontare la propria vita e le sensibilità che
l'accompagnano, sfidando il mondo, facendo i folli, sublimando la
grandezza del pensiero lontano dal nulla contemporaneo.
Nessuna
intenzione di parafrasare Steve Jobs, anche se a suo modo anche lui è
stato un artista, ma il tentativo di far comprendere che oggi o si
parla di Arte con la A maiuscola o è meglio farsi quattro
chiacchiere con il pensionato intento a seguire i lavori di posa
della rete fognante. L'Arte con la A maiuscola è quella che parla al
cuore e alla mente (e non viceversa), e non sicuramente solo al
portafogli.
A questo
punto, ci è venuto un flash, un concetto che parte dalle
considerazioni fin qui sviluppate. È possibile continuare a parlare
di Arte Contemporanea o siamo proiettati decisamente verso una
“cont-contemporaneità”, quella che potremmo definire
“contamination art”? Riflettendoci, l'ipotesi è sostenibile e,
in fondo, abbiamo solo accolto il consiglio di Jobs.
…
il bello della vita è proprio
l'imperfezione, il marchio della diversità, la ricchezza dei tratti
originali che sfuggono al grigiore delle convenzioni...
Queste sono
le parole di uno scrittore, Maurizio De Giovanni, e non di un
critico, e si riferiscono a una indagine di polizia e non a una
mostra presso una Galleria di Napoli. Quando il linguaggio, il
codice, è comune e condiviso, allora scappa la parola magica: Arte.
E l'Arte è
magia, altrimenti non è.