Ho
riletto i testi e riascoltato una buona parte della sua produzione,
compreso quel Biograph che resta una preziosa sintesi del suo lavoro.
L'ho amato come si amano i profeti, quelli che riescono a mostrare il
mondo qual è ma, soprattutto, quello che verrà. Basta ascoltare
Woody Guthrie per rendersi conto di quanto abbia influenzato, nello
spunto stilistico, Dylan. E a Woody, Bob deve molto, se non tutto. Le
sue canzoni le abbiamo cantate e suonate dappertutto, dalle sale da
ballo, dove ci (il mio gruppo) subissavano di fischi e mormorii, ai
fuochi accesi in spiaggia, di notte, al mare. Le note volavano alte
come le scintille e noi eravamo felici. Quelle parole le traducemmo
tutte, eravamo tre amici inseparabili e profondamente dylaniani, e
quello fu l'unico modo di capirle e apprezzarle per quello che erano:
quattro passi avanti rispetto a Mogol.
Il
cantautorato fu un periodo fertile e noi ci permettevamo,
rumorosamente, di starci dentro. Quando venne il duo Dylan/Baez ci
sentimmo appagati perché anche le ragazze cantavano con noi, si era
quasi rotto un tabù e il ruolo della donna nel mondo complicato
della “protesta” venne sacralizzato. Gli spunti civili, sociali,
politici erano quelli che ci facevano discutere prima e dopo aver
ascoltato le canzoni, prima e dopo aver dato un bacio rubato sotto le
stelle e l'amore libero era libero davvero. Dylan era un mito e nessuno avrebbe potuto abbatterlo.
Figurava, nel nostro confuso immaginario di eroi, nella galleria dei
“mostri”, di coloro che stavano contribuendo a cambiare il mondo:
lui, Bob, il Che, Mao, non a caso tre lettere, anche se Martin
(Luther King) ne aveva il doppio. È vero, accanto ai suoi testi,
quelli dei Beatles ci facevano ridere e, anche se qualcuno poteva
essere all'altezza di quelli di Dylan ne erano ancora abbastanza
lontani. La sua profonda rivoluzione linguistico-musicale era
innegabile, com'era innegabile la rottura di tutti gli schemi delle
canzonette. Ci rendemmo conto di cosa fosse la poesia in musica,
quando ascoltammo Fabrizio De Andrè e, volendo sempre approfondire,
i suoi mentori, la scuola francese dei Ferré, dei Brassens, dei Brel
che stavano a significare un passo in più nei confronti degli
americani, l'umanesimo contro l'agro-metropolitanesimo. Nonostante
tutto, nonostante Blowin in the Wind, Canzone dell'amore perduto era
diventata la nostra hit.
Il
mondo stava cambiando a una velocità ultrasonica. Nelle antologie
scolastiche cominciavano a entrare i testi di Francesco di Giacomo
del Banco insieme a quelli di Mario Luzi. In quel tempo, quando si
studiava e si approfondiva, analizzare i testi dell'uno e dell'altro
non era solo un esercizio di stile ma di sostanza, e tutto l'apparato
critico di ciascuno di noi, subiva uno scossone tale che spesso ci
tramortiva. Ma tutto era iniziato da lui, da Bob, inutile negarlo.
Poi, siccome non mi pento di essere un italiano che legge, incontro
Philip Roth, Murakami Aruki, Kawabata Yasunari, Sandro Penna e mi
rendo conto che la letteratura è un'altra cosa. Mi commuovo e
divento ebete guardandomi allo specchio. Perché il Nobel a Dylan mi
divide a metà? L'ho scritto.
Nessun commento:
Posta un commento