Capita sempre così: si commette un reato e la colpa è dei giudici che lo hanno scoperto. E quando si commette un reato è chiaro che la stampa ne parli anzi, a volte, quella più seria, contribuisce a scoprirlo e denunciarlo pubblicamente.
Poi, come accade sempre più spesso nel Paese in cui la libertà di stampa è al 78 posto delle classifiche mondiali, ci sono le distorsioni, quegli effetti devastanti che qualche anno fa vennero definiti "macchine del fango".
Le notizie false (vedi i casi Boffo, Fini, il giudice Mesiano), e i tanti "a mia insaputa", hanno contribuito a disorientare una opinione pubblica che in quanto a disorientamento stava già bene di suo. Il collateralismo, poi, di una parte della stampa con il potente, il potere o gli interessi dell'editore di turno, ha contribuito a screditare ancora di più una categoria che in altre parti del mondo è considerata quasi sacra. Ma da qui a dire che la colpa è dei giornalisti, fino a invocarne la proscrizione con lettere minatorie inviate all'Ordine, ce ne corre, soprattutto se a essere messa nel mirino del politico di cui sopra, è la libertà di stampa, un concetto che, evidentemente, avendo a disposizione una sola, impenetrabile fonte di informazione, non ha ben chiaro.
Cari politici e affini, se si inducono ragazze a prostituirsi, la colpa non è del giornalista che l'ha scoperto né del giudice che vi manda un avviso di garanzia ma la vostra: evitate di pagare le donne che vi portate a letto e il gioco è fatto. Così, se si commette abuso d'ufficio, la colpa non può essere del giornalista né del pm che vi sottopone a otto ore di interrogatorio, ma la vostra. In poche parole, evitate di abusare e nessuno vi potrà mai dire nulla.
Il vecchio, caro giornalismo d'inchiesta, vero fiore all'occhiello della libera stampa, purtroppo è finito miseramente in soffitta, forse anche per colpa delle "querele temerarie" con le quali si minacciavano non le testate giornalistiche più forti, ma quelle che non si potevano permettere l'assistenza di un legale.
Il "ti querelo" è diventato un ritornello insostenibile, un randello pre-giudiziario con il quale fermare sul nascere qualsiasi tentativo di approfondimento della questione in discussione. Erano le paroline magiche dell'era berlusconiana, Gasparri l'avrà dette quante volte? Dieci, ventimila? In ogni dibattito televisivo, quando l'interlocutore citava fatti e non barzellette, il prode, reduce dalla scuola di Brunetta, le tirava fuori dal cilindro e l'interlocutore, intimorito, taceva; da altre parti si sarebbe chiamata "intimidazione", reato anch'essa.
Il diritto di cronaca, come quello di critica, è praticamente scomparso. Oggi, ed è capitato a me, se recensisci uno spettacolo, un film o un concerto e assumi una posizione critica dettata dai fatti e non dalle congetture, ti ritrovi una sequela di insulti che manco un camallo del porto di Genova. Segno che l'insulto, oltretutto, è diventato il mezzo più breve e violento di dire che non si è d'accordo senza specificarne il perché.
Questo blog di insulti e di minacce ne ha ricevuti come piovesse, tanto che, per parecchio tempo, ho smesso di frequentarlo e di scriverci. Ma non per paura (alla mia età ho i calli), ma per il semplice fatto che come si fa a rispondere a un insulto privo di motivazioni, insultando a mia volta? Avveniva tanto tempo fa, all'epoca di Silvio, sdoganatore di becerismi. Ora li lascio scivolare, come gocce di pioggia sull'impermeabile.
Nessun commento:
Posta un commento