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domenica 15 febbraio 2015
Eugenio, me e l'anarchia
Leggo, sgomento, l'articolo di Eugenio Scalfari sull'ultimo numero dell'Espresso (pag. 138). Una delle menti più fertili della seconda metà del Novecento, riparte da un suo romanzo, Il Labirinto, uscito nel 1998, per affermare e dimostrare che "la verità non esiste perché ciascuno di noi ha una sua verità e crede che quella sia la verità assoluta, ma sbaglia perché è soltanto la sua". Da questo assunto, Scalfari inizia un ragionamento che lo porta a dire: "se ciascuno ha una sua verità, allora il falso non esiste. Ciò che è falso per te può essere vero per me". Su questa teoria dell'assenza della verità e della falsità si è basata l'intera ideologia del pret-a-portér berlusconiano, teorie da boutique insomma, non certo da agone politico. Per molti versi condivisibile, l'analisi di Scalfari crolla miseramente nel momento in cui tira in ballo l'anarchia affermando: "Qui nasce il pensiero dell'anarchia: gli anarchici proclamano appunto che la mia verità è soltanto mia e non tua e riescono a stare insieme proprio perché sono accomunati dalla stessa convinzione. Ma questa aggregazione - prosegue Scalfari - di diversi potrebbe governare una città, una regione, una nazione o addirittura l'intero mondo? No, non potrebbe se nessuno può decidere per tutti". Questo è il punto di maggiore disaccordo con il fondatore di Repubblica perché, come spesso sono i ragionamenti tanto al chilo dei cosiddetti intellettuali liberal, Scalfari dimentica, o fa finta di farlo, che esistono le verità condivise come esistono le falsità condivise (e in questo i berlusconiani sono dei veri e propri campioni). Le verità condivise degli uomini di Buenaventura Durruti o di Nestor Ivanovic Machno, ad esempio, erano infatti basate sulla comune visione della giustizia sociale, della libertà, del libero commercio, dell'alfabetizzazione, della pace e della mutualità. Che poi un militante anarchico potesse ritenere il verde solo il verde e un altro lo stesso colore come un derivato dell'unione del blu con il giallo, faceva poca differenza. Ciò che univa Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti, uomini di cultura e sensibilità diverse, erano l'amore per la giustizia e il rispetto per tutti gli uomini, nonché un'avversione totale nei confronti di un potere violento che impiccava negri e immigrati con la stessa facilità con cui ballava il charleston. Scambiare uno spunto rivoluzionario per una semplice mancanza di idee, o per un difetto di comprensione dei concetti di verità e di falsità, mi sembra un ragionamento figlio dell'epoca in cui viviamo, che se scrivi un romanzo di più di 300 pagine l'editore non ti pubblica perché la gente vuole storie brevi e soprattutto semplici. Si tende, ma questo da sempre, a liquidare la questione anarchica vestendola del concetto di utopica e quindi inconcludente, irreale, irrealizzabile, quando fatti e momenti (pur brevi) della storia, stanno a dimostrare l'esatto contrario. E per finire una "verità scomoda condivisa". Cosa pensa Scalfari che unisca le popolazioni della Val di Susa se non la verità condivisa che la Tav (l'alta velocità) rappresenti un danno letale per le popolazioni oltre a uno spreco immane di denaro pubblico utilizzabile per altri settori della vita sociale? Pensa ancora, Scalfari, che le casalinghe dei No-Tav siano uguali per gusti e storia, ai ragazzotti che fanno saltare i cancelli dei cantieri? Quante presunte verità e altrettante falsità li porterebbero a posizionarsi su fronti diversi e contrapposti se non avessero una sola, unica, condivisa, verità? Il fatto è che la questione anarchica, da quel che mi è dato di capire, si risolve solo e sempre con un volo dalla finestra di una questura di una qualsiasi città italiana.
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