La
paura di Carla per il vento
Erano
refoli, nulla più. Aliti che spiravano muovendo appena i rami del
mandorlo gonfi di fiori. Ondeggiavano lentamente trasportando con il
ritmo del tempo il loro peso: prima a destra, poi a sinistra, di un
paesaggio quieto come le giornate di primavera di quel secolo, di
quell’anno, di quel mese che non ricordo. Forse era marzo o aprile
o maggio o forse non era nessun mese ma un giorno qualunque.
Eppure,
nonostante fossero refoli, Carla provava uno spavento terribile per
quello stormire di foglie e fiori e rami che erano un tutt’uno con
la sua voglia di trovare un riparo dentro il quale quel vento
smettesse di soffiarle in faccia. Era una delle sue mille fobie, in
apparenza innocente, ma portatrice di tutti i malesseri possibili, e
anche di quelli costruiti con l’abilità di chi medita a lungo
prima di vietarsi di vivere. Il vento, come la pioggia che avesse il
vago sentore del temporale, come un gatto paralitico pronto ad
attraversarle la strada con le stampelle, come i topi, i serpenti, le
mosche e le zanzare, le lucciole e un moscerino, rappresentavano per
lei pericoli.
Le
angosce riusciva a trasmetterle con un’arte sopraffina. Non solo le
viveva ma le faceva vivere anche agli altri, colf e cane compresi.
Ogni impercettibile sbandamento dovuto alla sua proverbiale
labirintite, le sembrava una scossa di terremoto, così come la
strada bagnata dalla pioggia riusciva a trasformarla in un lago
ghiacciato pronto a incrinarsi per inghiottire chissà chi, chissà
cosa, e soprattutto, per quale ragione quel chissà chi o chissà
cosa, dovesse essere per forza inghiottito dalle gelide acque di una
primavera stanca. Convivendo con le previsioni del tempo, era in
grado di dire a tutti, ma proprio a tutti, se sul loro tetto, sulla
loro testa, sul cofano dell’auto o sul sellino della moto avrebbe
piovuto, ci sarebbe stato il sole o una nebbiolina leggera, o un
manto di smog pronto all’effetto vetriolo su guance imperbi,
avrebbero coperto l’inutilità delle loro esistenze.
Carla
era una maestra nel prevedere tifoni che non sarebbero mai arrivati,
“e se fossero arrivati?”, amava ripetere con l’aria
disincantata di chi sa di saperla lunga. Un dolore piccolo piccolo o
una digestione tardiva, erano i sintomi inequivocabili di un infarto
imminente, di una paralisi incombente, di un tumore allo stato
latente. A volte condiva il tutto con un pizzico di Alzheimer, mentre
Parkinson sarebbe arrivato di lì a breve. Se le paure, le fobie, i
sensi di smarrimento che la coglievano dopo una ventata, fossero
rimasti nell’ambito della sua sfera privata, o quasi, non ci
sarebbe stato nulla da obiettare. Ma aveva il vezzo di spruzzare
ansie, timori, angosce e paure tutto intorno finendo di illudersi,
così facendo, di svolgere il ruolo insostituibile di una specie di
protezione civile preventiva. Nel corso degli anni questo modo
terribile di affrontare le cose della vita si era acuito fino al
punto di negarsi la quiete di un momento normale, di una passeggiata
senza voltarsi continuamente, di un tratto di strada da percorrere
senza guardare di sottecchi tutti i passanti intenti a pensare ai
fatti loro. I vicoli erano sempre stati la sua passione. Il sentirsi
stretta e protetta dalle mura di case anonime, ma lontano dagli
sguardi indiscreti del resto del mondo, la tranquillizzava
enormemente, quasi un piacere sottile nel rendersi invisibile
confondendosi con il selciato, le pareti, perfino le vetrine:
trasformarsi in un manichino, le appariva a volte l’unica soluzione
possibile contro la curiosità della gente. La piazza? Una piazza
qualsiasi? “Mica sono una esibizionista”, diceva inalberandosi e
cercando con fare frenetico una rasserenante sigaretta in fondo alla
borsa.
Il
caso era disperato, e più il tempo passava più le disgrazie erano
pronte ad abbattersi su di lei, intorno a lei, contro di lei. Un
giorno però le accadde di innamorarsi. Un incanto da favola
infantile fece scomparire del tutto la cortina che si era costruita
in anni di paziente autoflagellazione. Vide il mondo sotto una luce
diversa e perfino il vento cessò di farle paura. Si sentì nascere
per la prima volta, ed era una nascita alla quale stava assistendo
ora dopo ora, giorno dopo giorno, in prima fila, da protagonista
assoluta. Accettò la puntura di una zanzara senza precipitarsi al
pronto soccorso e alla prima indigestione lenta una camomilla,
improvvisamente, la rassicurò. Nonostante tutto le restava ancora un
ostacolo da saltare per poter dire di essersi trasformata in una
persona normale. Una paura le era rimasta e stentava a farla andar
via, a vincerla, a batterla con la sola forza di un pensiero che
razionalizzasse i non sensi vissuti fino a quel momento. Questa, al
contrario delle altre, era una paura vera e si poteva racchiudere in
un pensiero: la paura di essere felice.
Find
the Cost of Freedom
(Lettera
d’amore e di libertà)
La
prima volta che ti ho incontrato vestivi il bianco delle nuvole. Le
luci di Victoria Station disegnavano arabeschi su un manifesto che
diceva dell’India.
Eri
immersa nella voglia della mia fantasia di volare altrove, in un
posto dove accarezzarti e stringerti senza la paura di un no. Poi ti
ho inseguito sulla riva di un mare spazzato dal vento e dalla
malinconia. Correvi veloce verso l’orizzonte, e la tua scia si
portava appresso il desiderio di vivere senza dolore in un posto dove
la dignità non fosse merce rara e un sorriso figlio solo di se
stesso.
Ti
ho incontrato nelle mie passeggiate a perdere come i vuoti delle
lattine calpestate dai mercenari. Ti ho preso per mano e portato con
me, di là dal vento e dalla tempesta della violenza. Ho cercato di
ripararti con le mani e con la mente, fino a quando anche
l’intelligenza è diventata a perdere, stanca di soccombere.
Ma
tu, mia libertà, non mi hai mai abbandonato, tenendoti stretta al
mio destino e al coraggio di camminare lungo strade cosparse di mine
e di sale buono da mangiare. È stato quando ho avuto paura di
perderti che, aprendo gli occhi, mi sono reso conto di dove stavo
vivendo, per chi stavo soffrendo, per cosa avrei dovuto lottare
invece di restare inerme a leccarmi le ferite di una sconfitta
prevista. Ho girato allora la prua verso il largo, facendoti sedere
al riparo dal maestrale, fino a quando la torre del faro ha
illuminato la via, il raggio di luce non si è perso fra mille
balbettii e le barche hanno ripreso a pescare. Era anche la rotta
verso Lhasa, quella che passa vicino la casa serrata di Aung,
l’asfalto con il corpo di Neda e il pianerottolo insanguinato di
Anna. Allora, mi hai stretto forte e il terrore di non significare
più nulla si è impossessato dei tuoi occhi, fino a che li hai
chiusi in un sonno che aveva tardato ad arrivare ma che, una volta
venuto, ti aveva fatto sospirare e sognare. Quante volte abbiamo
sognato insieme, io e te.
E
quante volte, il solo pensare che il nostro era un sogno avuto in
comune, ci ha dato una gioia immensa e un vago sapore di vaniglia in
bocca: il gelato della domenica prima dell’arrivo dei tank.
Sconfitti,
ci siamo sempre rialzati convinti che non potesse finire con un segno
di resa il nostro odio verso i violenti e chi ruba i sogni ai bambini
giocando da adulti. Siamo finiti nel deserto, e abbiamo atteso che
verso di noi si fiondassero tutti quelli che sono in fuga dal destino
e da chi pretende di comandare non sapendo dialogare. Quante parole
abbiamo speso e quanti sogni interpretato a chi non capisce
l’importanza della tua presenza, delle tue braccia che avvolgono in
un calore che strugge l’anima e pacifica la coscienza. Non sei un
ricatto né potresti mai esserlo, sei solo un grande regalo, il più
grande di tutti, quello che in molti vorrebbero non avendolo mai
posseduto. Sei la mia, la nostra libertà. Sei un pensiero cresciuto
nel tempo e distante mille miglia dal compromesso. La tua grandezza
sta nell’interezza della tua presenza. Non sei mai a metà, non ti
si può comprimere né blandire né brandire come un pericolo. Non
sei mai troppa, e quando lo sei è perché il fastidio di chi
vorrebbe gestirti non supera la bellezza dell’averti. Sei
dappertutto e in ogni momento, e quando ti mostri il fascino che
emani è una via senza ritorno nella quale puoi solo guardare avanti
perché dietro c’è il vuoto. Amo il tuo modo ostinato di
combattere ricorrendo solo alle armi dell’intelligenza e mai al
terrore dei gesti, convinta come sei che basta farti entrare dallo
spiffero di una porta per inondare la casa di profumi e delizie, un
giardino dell’eden che prende forma nel soggiorno. Non hai bisogno
delle vergini bianche né del latte che scorre a fiumi, non hai
bisogno di croci né di morti, il peccato non ti appartiene e perdono
non lo chiedi mai perché sono gli altri che lo chiedono a te. Ti
calpestano, ti violentano, ti reprimono, cercano in continuazione di
rinchiuderti in una gabbia da cui farti uscire a intervalli
stabiliti, al ticchettio di una sveglia starata, a un assurdo modo di
concepire la tua presenza e la tua enormità. Un giorno ti ho
raccolto stremata sulla strada, un lungo corteo aveva invocato il tuo
nome ma, come usciti dagli inferi della disumanità, uomini si erano
accaniti su di te con una ferocia che non aveva nulla di bestiale
perché gli animali, loro si, sono liberi. Mi avevi guardato come a
chiedermi “perché?”, e io non avevo saputo cosa risponderti. Ti
avevo preso fra le braccia e stretto forte pronto, se me lo avessi
chiesto, a darti la mia vita. Ma tu non l’hai voluta, stanca di
chiederne nel tuo nome. Mi piacerebbe andare con te dove l’aria è
pura e il pensiero può volare senza essere costretto a fare i conti
con l’oggi, il domani, il chissà. Magari esiste davvero, ma il
problema è che ci stanno spingendo a credere che tu, mia libertà,
sei qui e nessuno potrà mai imprigionarti e nessun randello spezzerà
mai il gioco dei ragazzi in una scuola. Usano il tuo nome con una
facilità che indigna, svuotandolo della sua essenza, spacciandolo
per un termine senza senso e affermando che ci sei. Ma tu non ci sei.
Di te non è rimasto che un ritratto ingiallito tirato fuori, a
comando, da truppe di clown che lo mostrano a chi si accontenta di
guardare senza il piacere di lottare. Chi non ti ama non può
comprenderti, non può scivolare con te nel gusto di esistere, perché
non si è vivi se non è possibile stringerti e godere di te, come di
un cornetto caldo all’alba di un giorno che vorremmo sempre nuovo.
Sabrine,
mare d'inverno
La
nuvola a forma d'autunno copriva il sole incatenato. La luce, uno
sola, mostrava ad Alex l'immenso.
Era
il bagliore dei “Dodici Apostoli”, con le onde del Pacifico che
si frangevano sulla costa australiana, in attesa che un pinguino in
frac stappasse lo champagne.
Sabrine
osservava la cresta delle onde di luglio con la curiosità di chi
crede che un braccio intorno alla vita, possa risolvere ogni
problema.
Sabrine
era l’esistenza, Alex il contrario di tutto, anche di sé e degli
altri; il nulla e la musica, la violenza e la dolcezza, l’arroganza
e la tenerezza in un crescendo di impressioni.
Il
loro incontro era stato contraddistinto fin dall’inizio da una
specie di rincorsa verso l’annientamento reciproco. Era difficile
capire cosa li accomunasse se non quel senso di distruzione che
sull’Alexanderplatz, accompagna i freak figli del loro tempo. Quel
viaggio, e la scoperta delle origini della vita, doveva servire ad
entrambi per capire il dopo. Un fazzoletto adagiato sul collo, una
rosa appassita figlia dell’inverno, il 1945 come un tam tam
d’estate, quando l’estate sarebbe arrivata.
Alex
le aveva chiesto perdono. Si domandava ancora se fosse servito.
L’importante era che Sabrine, avvolta nella giacca a vento regalata
dalla sabbia, stesse vivendo con lui la luce del tramonto. Il suo
cuore, figlio delle guerre, era un brillante impazzito trasportato da
una zattera. Aveva detto “ti amo”, come non mai, come avrebbe
ancora fatto. I capelli di Sabrine compresero e si adagiarono sul
cappotto blu di un figlio del vento.
Le
ore trascorse in aereo fuggirono come una stella cadente nell’immenso
dell’amore che per la prima volta aveva provato in un impeto di
gioia non repressa. Ferragosto era passato come il Natale, con una
velocità tanto impalpabile quanto aritmica. Una scheggia di figli
nati per caso dai confini di un mare in cui affogare.
L’autunno
italiano stava cedendo il posto a una farfalla sui glicini, mentre la
luna di giugno aveva assunto l’aspetto di una stella dispettosa.
L’Oceano era verde di alghe vicine, mentre le barche ritiravano le
reti convinte di aver catturato il mondo, mettendolo in tasca.
Il
cancello bianco di legno permetteva ad Alex di vedere Sabrine, di
berla, di amarla come se il resto non fosse esistito. Parlare
d’amore. Perché?
Alex
parlava d’amore con se stesso e Sabrine era lì, favola di
mezzanotte che non si sveglia neppure con il profumo acre della
tempesta. Radio
Londra
stava trasmettendo mentre il padre di Alex venne portato via dalla
violenza. Era rimasta un’immagine, quella di una camicia bianca
insanguinata che contrastava con quelle a fiori degli americani che
sarebbero arrivati poco dopo. Era rimasto il mare d’inverno, come
un relitto naufragato nei sogni di una democrazia incompiuta
guardando negli occhi i suoi amici, ragionieri frustrati. Il salto di
Tanja oltre la linea di confine, era rimasto nella sua mente e nelle
immagini violente di una vita affrontata di corsa.
Sabrine,
mani intorno al bavero della giacca, osservava Alex nascondersi alle
lacrime, fuggire dai pensieri, mescolarsi con le foglie mosse dal
vento. Tanja era corsa incontro alla libertà molto prima che sulle
ali di un gabbiano, facesse la sua comparsa sulle rive del Mare
d’Azov. La foto di Tanja distrutta dal benessere, Alex la portava
appresso, come un assurdo feticcio di paglia, come quattro note
bucate di un pianoforte nell’aria e di una chitarra scordata
all’alba. Foto emblematica di un bacio strappato alle convenzioni,
con un paio di occhiali persi nell’obiettivo di una faccia vuota.
Sabrine
era stata un’apparizione in uno dei tanti momenti di
scoraggiamento. Aveva riempito con il suo sorriso quella parte di
Alex destinata a rimanere per sempre incompiuta. Come le frasi
sconnesse sul suo futuro e un uomo che la schiavizzava fino a farla
sentire un vuoto nel nulla.
Alex
le aveva portato in dono la dolcezza, un soffio di aria pura in un
controsenso esistenziale. Sabrine si era avvinghiata a lui in un
abbraccio morboso. In quel momento, a Piccadilly Circus, aveva
dimenticato tutto. Tutto ciò che voleva dimenticare, compresa la
festa e la bicicletta che solcava la marea delle contraddizioni di
maggio e le violenze delle onde di novembre. Tutto era compresso in
una immagine devastante di gioia mista a dolore fino a morirne.
Sabrine era scioccante nella sua bellezza, nel suo modo di fare, nei
suoi atteggiamenti. Alex l’aveva amata così, come un uccello ama
il grano e un bambino gode della neve.
Era
bastata una birra per vivere Alice in un paese delle meraviglie
condannato al piacere: le loro vite manipolate dall’istinto. Fuori
pioveva e Sabrine gli si avvicinò.
Scavarono
insieme per comprendere il volo e assaporare il vuoto di esistenze
scevre dal sorriso e intrise di pianto. Non bastarono né la nebbia
né il vapore delle fogne del Bronx. Era tutto racchiuso nelle loro
mani di gesso. Una vita portata via come fosse un cero, il venerdì
santo. Un bacio nel palmo poi più nulla. Era il seguire ed inseguire
il muschio sull’ingresso, il sapore della primavera, la freschezza
dei fiori.
Ancora
una stagione senza amore.
Alex
e Sabrine seguirono con gli occhi le onde facendosi cullare da cinque
sensi mai così infuocati. Un porto indefinito senza navi, senza
barche, senza vele. Un luogo vissuto insieme mentre l’acqua univa e
divideva l’orizzonte senza un ritmo logico, senza musicalità,
senza ricchezza.
Stavano
aspettando che il sole entrasse dalle finestre a sconvolgere il
profumo del caffè fresco, al mattino.
Non
era possibile ballare né nuotare a mezzanotte nel mare dei sogni.
Alex voleva sognarla ma non era il sogno ciò che voleva. Aspettando
la stagione buona.
Pensò
all’Africa credendo mille volte di evadere dalla sua prigione di
sale e dal suo mondo di illusioni. Credette di essere un bambino che
contava le onde del mare mentre non era che un innamorato sconvolto
dalle fitte del cuore. Disse cento volte “ti amo” e lo ripeté
fino alla noia, fino all’oblio.
Sabrine
aveva le labbra di zucchero e il seno dolcemente abbandonato sulla
pelle di luna.
“Imagine”
suonava nel juke-box e lui credette di vivere il paradiso, ma non era
che la terra marrone, fredda e scorbutica del limbo. La vide
dispensare baci e carezze e pensò di aver sbagliato tutto, ma quello
era l’immenso. Quando la baciò innalzò una cattedrale piena di
fumo e di incenso; una notte di Pentecoste stando in lei. Le ombre
dei pini spiccavano neri al tramonto. Coni impazziti di gioia pieni
di confetti amari ma era lei, fino alla crisalide, coperta di piume e
gonfia di musica, stella puttana vicino a chi?
Alex
e Sabrine non sapevano nulla l’uno dell’altra ma erano un’ancora
sicura, un approdo certo, un luogo in cui parlare d’amore e vivere
con la melodia degli archi di una sinfonia. I giorni erano trascorsi
senza scoprire dio ma il sonno parlava d’amore e l’incubo era il
domani, pur essendo molto lontano e senza compagnia.
Il
bicchiere era scomparso e il caldo dei liquori aveva ceduto il passo
all’incendio, alla passione, al gioco, alla festa, al rito. Poteva
apparire strano eppure, quell’asfalto lasciato alle spalle riusciva
a far dimenticare il profumo dei tanti capelli assaporati nella
ricerca inutile di un’altra lei.
Il
neo sulla guancia di Sabrine era un fiore da cogliere e far appassire
nel libro delle beatitudini, accarezzare e strappare da un cesto di
emozioni. Ma cosa stava succedendo? Di cosa stava parlando?
Alex
si ricordava solo di loro. Sabrine era l’altra.
Il
mercante d’acqua proseguiva per la sua strada incurante del sole e
del mondo.
L’importante
era non dimenticarsi delle meteore, e del confine di lino tracciato
da Marilù quando sperava di tornare a sognare tra gli angeli. Tutte
le rose erano appassite e il deserto sfibrava i raggi del sole.
Le
tuniche blu al galoppo riempivano il baratro che separava Alex dal
resto del mondo. L’emozione e il calore avevano fatto sì che gli
sguardi di Alex e di Sabrine si incrociassero mentre il sole stava
tramontando sull’oceano impazzito. Bastò poco per capire che la
vita come l’amore era lì, in quel fazzoletto di erba secca, in
quel paesaggio ingiallito da un sole freddo e intimidente.
Alex
tese la mano che lei prese e baciò. Sabrine non era cambiata anzi,
era ancora più bella.
I
“Dodici Apostoli” stavano vivendo una insperata energia di
piazza.
L’auto
si allontanò dopo aver disciolto l’ultimo sguardo verso
l’immensità del sogno.
La
mano di Sabrine sfiorò quella di Alex, mentre il sole vergognoso si
nascose dietro le nuvole di un mare d’inverno finalmente bianco.
Dichiarazione
d'amore in cento righe, una parola e un frac
Lo
avevo trovato. Sapevo che da qualche parte, in qualche luogo nascosto
scoperto dalla sua fantasia malata, doveva averlo messo. Sapevo che
prima o poi, magari inseguendolo sulle rive del Tamigi, lo avrei
scovato. La Senna era distante, come Parigi, come la rhumérie di
Saint Germain, quelle delle mie notti perse inseguendo Marguerite. Lo
sapevo che mio nonno non l’avrebbe gettato. Erano stati troppi i
giri di danza e troppe le feste, le serate di gala, i ricevimenti cui
aveva partecipato per disfarsi di quello che per lui era diventato un
vero e proprio oggetto di culto buono per le grandi occasioni. Me ne
aveva parlato da bambino, mostrandomi foto che rischiaravano alla
luce delle nostre lampadine nelle lunghissime notti d’inverno, e
con la neve a far da sordina. Le ricordo quelle foto, anche se non so
che fine avessero fatto. Se le avessi ritrovate le avrei conservate
gelosamente. Conoscevo le storie di quegli scatti, tutte le storie
vere, verosimili, inventate di sana pianta che quegli attimi rubati
si portavano appresso come una maledizione della storia e della vita,
degli amori perduti e di quelli trovati per caso fra le pieghe di
mille domande senza mai una risposta.
Il
vecchio frac di mio nonno.
L’abito
non era sgualcito e c’erano ancora tutti gli accessori: il
fazzoletto di seta bianca, i calzini neri, lo sparato inamidato, i
gemelli d’oro, il papillon, i guanti, il bastone laccato con il
pomello d’avorio e infine lui, il cilindro, uguale a quello di Fred
Astaire. Miracolosamente conservati, quegli oggetti mi avrebbero
aiutato a fare una cosa che mi ronzava in mente già da un po’ di
tempo: vestito di tutto punto mi sarei seduto al tavolo, avrei tirato
fuori dal cassetto la carta morbida e il pennino di legno verde, e
avrei scritto una dichiarazione d’amore per la mia lei, la prima
vera dichiarazione d’amore della mia vita. Sapevo bene, e il tempo
me lo confermò, che il sentirsi parte dell’altro era un sentimento
a senso unico e riguardava solo me. Ma in quel momento era solo una
sensazione, una percezione fastidiosa e nulla più, una mosca che mi
ronzava intorno e che cercavo di scacciare con gesti ripetuti e lenti
della mano. Ero un innamorato perso fra le nebbie del nord e il caldo
accogliente del sud, il vento e il sole, la pioggia e la neve fino
all’uragano che mi prendeva il cuore stringendomelo forte. Amavo
come non avevo mai amato prima, ma forse non sapevo farlo, mi
mancavano le coordinate essenziali, non ero in grado di comunicarlo
nella sua interezza e nella sua totalità ma l’amavo, l’amavo di
un amore talmente profondo in cui, se solo me lo avesse chiesto, mi
sarei buttato a capofitto correndo il rischio di affogare. E sarebbe
stato un bel morire.
Il
frac mi stava a pennello. Io e il nonno avevamo la stessa corporatura
e quell’abito così ricercato e ancora vivo, sembrava mi fosse
stato cucito addosso. Mancava solo la lettera, la dichiarazione, il
mettere in fila pensieri se solo fosse stato possibile. Mancava che
l’inchiostro iniziasse a tracciare segni sulla carta bianca
macchiandola di sentimenti e di gocce di pianto, delle emozioni e dei
sussulti di un uomo che aveva solo una colpa grande come il cuore,
quella di amare troppo. E l’inchiostro prese a scorrere, come un
fiume quando sa di dover creare e non distruggere.
“Amore
mio, quanto tempo! Sembra una vita eppure è un istante, quelli che
il mio amore trasforma in ore e vorrebbe eterni. Ho ripensato a ogni
cosa fatta insieme, ai momenti nostri che qualche tarlo invidioso ci
rubava, alle tue ansie e alle tue inquietudini, ai tuoi gesti
disperati e alle braccia che mi stringevano forte, come fossi tuo.
Penso a te in ogni momento utile e inutile, quando sto con me e
quando mi trovo con gli altri, quando mi sento disperato e quando il
cuore impazzisce come fosse una manciata di coriandoli spersi nel
vento del carnevale. Vorrei essere con te su un carro non di
maschere, a cui basta un po’ d’acqua spruzzata sul volto per
riprendere le sembianze di tutti i giorni, ma di stelle. È su quel
carro di stelle che vorrei portarti quando sento che il mondo intorno
mi sta crollando addosso, perché tu sei la mia forza e la mia
debolezza, il mio tutto e il nulla che ho cercato di imbrigliare
nelle albe di ogni giorno vissuto. Penso a te quando sono triste e
quando mi capita di essere allegro. Ti sento dentro quando dentro
vorrei solo annientarmi. Ti accarezzo anche se non te ne accorgi
perché sei lontana e perché le mie mani non possono volare sulle
ali della tua fantasia. Credo di averti amato da sempre, da prima che
facessi la tua apparizione nella mia vita. Credo di averti inseguita
sapendo che da qualche parte dovevi esistere, che c’eri e che se ti
avessi trovato non ti avrei lasciato più andar via. Di te amo tutto,
anche quello che non dovrei, che non vorrei e anche quello che mi fa
star male e sentire distante. Amo tutte le cose che parlano di te
perché sono tue, e io ti amo per come sei e non per come vorrei tu
fossi. Me ne sono reso conto con il passare del tempo, e nel momento
in cui sembrava dovessi saldare definitivamente il conto con una vita
che ho sempre preso in giro ritenendomi immortale. Me ne sono reso
conto quando intorno c’era il bianco e nessun pastello a colorarlo.
L’ho capito quando hai iniziato a scorrermi dentro come l’estate
buona, il sole di Luanda, la costa dell’Atlantico, le vie di
Dublino e la Haas, quella che fa godere di Gerusalemme come fosse
davvero la terra promessa.
Ti
amo per le emozioni che mi dai, per il tuo modo a volte scontroso di
fare e per le dolcezze infinite di cui ti ricopro e che non riesci
mai ad apprezzare fino in fondo come vorrei e come vorresti. Ti amo
quando cerco di carpirti l’anima mentre facciamo l’amore, perché
quello è amore nell’amore. L’amore con te è linfa, è l’odore
dell’incenso di San’a’, è il cedro di Beirut e il pompelmo
della piana di Jaffa. È la zagara di Marina di Ragusa e la neve del
mio paese quando scende lenta, e tu la guardi trasognata cercando di
fissare quel momento nei tuoi occhi per non dimenticarlo più. È
Varinin ed è Zivago, la mia Lara e la violenza delle emozioni, la
dolcezza della poesia e la delusione delle domande irrisolte. È una
canzone accompagnata dalla balalaica, mentre intorno il cielo si
tinge di rosso e i campi sono gonfi di grano; il nostro amore è la
vita e per quella vita, per quel sogno, per quella dimensione d’altri
tempi abbatterei ogni mulino a vento con la forza della mia
disperazione. Ti amo perché non amarti sarebbe impossibile, come è
impossibile non pensare a quello che provo quando sono in te e siamo
noi, solo tu ed io, mentre il resto corre lontano e si trasforma in
un’antilope nella savana senza un leone che la insegua per
sbranarla. Il mio amore per te è questo: è tutto il mondo che vivo
e che mi vive intorno, è la mia voce e il mio respiro, la mia aria e
i miei profumi preferiti, gli aromi che mi inseguono e che sanno
sempre di te e a te mi riportano, mano nella mano verso casa, dopo il
giorno fuori. Sei le mie notti, quelle che trascorro senza di te e
immaginandoti fra le braccia di un altro, quelle che fanno vivere i
miei incubi e le mie incertezze, i dubbi e ogni piccola amarezza non
più cullata, non più voluta, non più desiderata e allontanata con
la paura che possa trasformarsi in altro, in tutto ciò che di
sgradevole sia in grado di interrompere un sogno che voglio lungo
come un’eternità pronta a ricominciare. Sei la mia vita e se vuoi
ti do la mia, puoi prenderla e gettarla o tenerla e accarezzarla un
po’, con tutta la delicatezza che sai e che hai, e senza nessun
ostacolo, non da parte mia. Sei la mia vita e ti regalo la mia, te la
consegno fra le mani, nella tua anima e nel tuo corpo sapendo che
saprai cosa farne, sapendo che è davvero tua, sapendo che se lo
vorrai non fuggirà né verso altri porti né altre baite né
sentieri accidentati. Non ho più intenzione di cadere, amore mio,
sarebbe difficile rialzarmi, difficilissimo muovere un passo,
impossibile amare ancora con la stessa intensità e la stessa lucida
follia. Voglio ancora la magia, la voglio nelle cose grandi e in
quelle che sembrano nulla e la voglio con te. La pretendo perché la
sento nostra, perché ci appartiene, perché ne ho capito
l’importanza quando tutto sembrava destinato a finire, e la magia
non era che una parola vuota pronunciata per sbaglio, un lapsus, un
refuso, un assurdo esistenziale.
Sai
perché ti amo? Perché ti amo! E l’amore non va alla ricerca di
nessun aggettivo, è già un superlativo.
L’amore
è un’altra dimensione anzi, è semplicemente tutto. E quel tutto
voglio dartelo, e quel tutto lo vorrei da te perché questo è
l’amore e questo è amare, il resto lo lasciamo ai cuori inariditi
e a quelli che lo scambiano per una parola di circostanza detta per
quietare chi l’aspetta con ansia, come me il vento del deserto. Sto
ascoltando la nostra musica e mi chiedo se davvero esisti. Però ci
sei, sto parlando di noi, di me. Sei la mia dimensione rarefatta come
l’aria di maggio, come la lava che brucia e scarnifica, come il mio
sogno nascosto durante le pazze giornate ricche di controsensi e
prive di sensazioni. Mi sei entrata dentro con la forza di un
passerotto infreddolito e la debolezza di una donna piena di paure.
Sei dentro di me come il sogno del mare di settembre e il verde di
giugno, le note di un’armonica a bocca nella prateria e Manitù che
gusta la scena assaporando un vecchio bourbon. E poi, amore mio, sei
la mia donna e non è un caso che tu lo sia. Dentro e sotto, c’è
tutto quello che ho sempre desiderato. Sei tu e questo mi basta,
sapendo che non sei il giocattolo nuovo di un bambino capriccioso ma
l’amore, il mio unico vero amore. Immenso”.
Quello smalto color non so.
Girava. Stava girando il mondo intorno. Cercava un appoggio, un sostegno, una sponda qualsiasi per non cadere. Tutto girava, ma Nico non voleva crollare a terra colpito dal fulmine della solitudine. Lui voleva restare in piedi, nonostante la testa gli andasse prendendo direzioni sconosciute e le luci dei lampioni non lo avessero mai infastidito tanto.
Girava. Stava girando il mondo intorno. Cercava un appoggio, un sostegno, una sponda qualsiasi per non cadere. Tutto girava, ma Nico non voleva crollare a terra colpito dal fulmine della solitudine. Lui voleva restare in piedi, nonostante la testa gli andasse prendendo direzioni sconosciute e le luci dei lampioni non lo avessero mai infastidito tanto.
Le
falene gli sembravano aviatori della prima ora, quelli reduci dalla
lettura del “Manuale del perfetto pilota in tredici lezioni”,
quelli che stentano a decollare e prima di atterrare raccomandano
l’anima a Dio; quegli
strani personaggi, in una stiratissima divisa blu notte con i galloni
argentati, capitati in un aereo per caso, come per caso Nico, quella
sera, si era trovato a camminare lungo una strada di periferia.
Oddio, periferia... Più che altro era un ammasso deforme di ombre di
caseggiati senza logica, senza calore e senza la parvenza di
un’umanità che da quelle parti doveva, nonostante tutto, scorrere.
Guardando avanti, appena oltre il ponte, Nico vedeva le luci potenti
e intermittenti del luna park. Si rincorrevano in una serie di balli
senza ritmo e danze senza senso. Erano di tutti i colori e cambiavano
tonalità a seconda dell'aria e del
vento che spirava. In parte coperto alla
vista da un abbozzo di filari di alberi, il luna park era musica e
vita. E si sentivano i sospiri ruffiani, che provenivano da
altoparlanti starati, descrivere le meraviglie del “Tunnel
dell’amore”, come se l’amore fosse un tunnel e non un grande,
meraviglioso, stordente, incommensurabile, smisurato
e cervellotico hellzapoppin.
Il
vento gli soffiava
il fumo della sigaretta negli occhi, provocandogli degli
irritanti bruciori causa
delle lacrime che sarebbero arrivate di lì a poco. Ma Nico
non aveva nulla su cui piangere, anche perché, stranamente, quella
poteva essere definita una sera quieta. La
serenità era un concetto
per lui difficile da sviluppare e mai
realmente sperimentato, anche se
desiderato spesso, anzi
ambito, quasi disperatamente inseguito.
Gli sarebbe piaciuta la serenità per un ballo, per quattro passi di
slow mossi con l’intenzione dichiarata di abbracciarla un po’, di
provare a stringerla per scoprirne l’effetto sulla pelle, di darle
un bacio piccolo, insignificante, senza alcun erotismo prepotente e
nessuna velleità romantica. Non era una dimensione astratta, la
quiete.
Continuava
a girare. Tutto girava, e sul ponte che sovrastava il fiume
puzzolente di anticrittogamici e diserbanti, sembrava girasse ancora
di più. Era un giro, solo un giro, ma lo stava infastidendo.
A
mano a mano che si avvicinava al luna park, si rendeva conto della
totale disperazione in cui quell’ammasso di illusioni infantili
versava senza ritegno. C’erano, a contarle, sette persone, tutte
giovani, ubriache, felici di spruzzarsi addosso fiumi di birra come
fosse champagne. Eppure le luci, i colori, le voci, i baracconi a
pieno regime, gli avevano fatto immaginare una folla strabocchevole
fare la coda per visitare il “Tunnel dell’amore” o per un giro
shock sull’autoscontro. Nessuno.
Non c’era praticamente nessuno.
E tutto funzionava come se lì, in quel momento, ci fosse il mondo
intero. Anche quella, in fondo, era un’illusione;
era tutto solo un gioco delle parti per chi aveva ancora la
forza e la voglia di recitarne una; attori senza pubblico e scrittori
senza lettori, il mondo per un mondo che non c’è, e che non ci
sarebbe mai stato. Forse Nico non pensava solo al luna park deserto,
ma al deserto vero, quello rosso, quello che l’harmattan disegna
ricamandone la sabbia con l’abilità di una vecchia merlettaia, e
l’incoscienza di una nipotina che fa e disfa le matasse di filo
come fossero capelli di un angelo biondo in volo mossi dal vento.
Quello era il deserto che aveva visto, ed era lo stesso di Djibril
che sarebbe morto poco dopo, in un asettico ospedale, attaccato a una
macchina, quando la sua speranza era
stata un’altra e non prevedeva una
parete bianca, piena di monitor, a fare da scenario. Djibril, come
Nico, avrebbe voluto andarsene fra le braccia di mille donne, perché
per loro aveva vissuto, per loro aveva cantato le sue migliori
ballate di immagini, per loro era riuscito a guadare fiumi in piena,
attraversare deserti riarsi, sfidare tempeste e farsi dilaniare
dall’impazienza di una corsa folle verso il piacere. Nico non era
così. Più che correre aveva aspettato che qualcuno lo facesse
per lui. E, quando si era reso conto di aver perduto tutto, aveva
iniziato a parlarsi più a fondo, a cercarsi con più insistenza, a
provare a percepire in anticipo quelle che sarebbero state le sue
sensazioni. Ma, quando aveva
cercato di essere diverso, anzi
di riappropriarsi di se stesso, era troppo tardi. Il
cronometro della sua esistenza si era fermato, e non ci sarebbe
stato modo di farlo riprendere a misurare il tempo. Non gli era
rimasto nulla e, non amando i rimpianti, non poteva neppure
compiacersi del suo malessere, cercando di trovarne qualcuno da usare
come alibi.
Girava.
Tutto stava ancora girando, mentre gli ultimi ospiti disperati di
quel luna park per cuori solitari, se ne stavano andando,
bestemmiando al vento canzoni senza armonia. Era rimasto solo, come
sempre. Si guardò intorno, accese una sigaretta e tirò una
lunghissima boccata. Lo speaker dell’autoscontro lo stava
fissando. Chissà quale film si era messo a girare... Lo seguiva con
lo sguardo perso nel vuoto, talmente perso che poteva essere solo
figlio di una sniffata chilometrica. Nico si voltò verso il 'Tunnel
dell’amore' e vide la persona che, da una specie di garitta
imbarazzante quasi quanto il suo giubbotto, da lontano gli era
sembrato sospirasse. Finta bionda platinata, labbra rifatte, seno
tracimante, sigaretta fra le dita, con unghie smalto color non so, lo
stava guardando. Anche lei. Non
si era mai sentito tanto in imbarazzo come nell’istante in cui si
era accorto che i quattro occhi e i due sguardi dello speaker e della
bionda lo stavano indagando. Non aveva capito se tutto
quell’interesse fosse dovuto al suo essere un soggetto intrigante
o se, come doveva essere, alla presenza
solitaria di uno sbandato, in mezzo a uno spazio privo di qualsiasi
personalità, con
solo un cane e un gatto che attraversavano la scena. Si girò,
e guardò con curiosità tutto quello che aveva a portata di occhi.
“Che squallore!”, pensò. I ricordi lo
fecero volare altrove, fino
a farlo sprofondare nel magma di emozioni mai dimenticate e di
immagini ancora vivide che gli penetravano il cuore con la crudeltà
del morso avvelenato di un serpente. Eppure stava bene. Si
sentiva bene, e la musica che in quel momento la sua fantasia stava
ascoltando, lo riconciliava con gli errori della sua esistenza e le
insulsaggini del suo ego spropositato. Allargò le braccia e accennò
un passo di danza. Si stava convincendo di essere su una nuvola
inondata dal sole. Tutto intorno, l’uragano stava dando il meglio
di sé e gli angeli erano impegnati a scoprire a quale diavolo di
sesso appartenessero.
Era quella la nuvola sulla quale avrebbe voluto
viaggiare il tempo necessario per compiere un giro intorno alle sue
emozioni. Gli sarebbe bastato. Si sarebbe accontentato, o forse no.
Nico aveva un rapporto molto intenso con le nuvole perché, al
contrario di tanti altri
uomini, poteva immaginarle, filtrarle e plasmarle seguendo
l’andamento dei suoi pensieri, quelli che più gli piacevano, che
meglio gli si adattavano, che più di ogni altra cosa lo avrebbero
condotto lungo i sentieri dissestati dei
sogni. Per Nico, le nuvole e i sogni rappresentavano due dimensioni
contrapposte. Amava le nuvole quasi quanto odiava i sogni,
soprattutto quelli a un passo dagli incubi di cui erano piene le sue
notti senza sonno e i suoi sguardi persi, a mezzogiorno. Ma ci
conviveva. Cercava di farlo, perché il fantasticare era uno dei
pochi agganci possibili con una realtà di cui aveva perduto le
coordinate. Però, quel luna park non disponeva di nuvole vere, pure
in tutta l’ampiezza di posti liberi e di uno spazio del quale stava
godendo in una sera in cui la gente era rimasta in casa a guardare la
tv, a leggere, a piangere, a litigare o, più semplicemente, a fare
all’amore. Da una vita non provava il piacere di sentire fra le
braccia il calore di una donna. Ne aveva dimenticato le
caratteristiche, perfino quella delle pieghe nascoste della pelle di
cui andava alla ricerca, quando la mente gli permetteva di essere lì
in quel momento e non a spasso per il mondo. Ne avvertiva il bisogno.
Stava diventando un’ossessione,
quasi quanto il tirare a campare una giornata cercando qualcosa di
cui nutrirsi per non schiantarsi a terra al primo urto leggero di una
porta aperta per caso. Stava diventando più lancinante di una
ossessione e Nico non poteva permetterselo, non poteva permettersi in
alcun modo di sentirsi ancora un uomo. Eppure lo era, diavolo se lo
era, ma ammetterlo gli costava una fatica enorme. Meglio stringersi
nel giubbotto lercio, e in attesa di una degna sepoltura, che
inseguire ancora una volta non più l’amore ma la sua essenza.
Aveva abdicato tempo prima, tanto tempo prima, e ora si sentiva un
re senza trono. Ma a Nico bastava poco per dimenticare la corte dei
servi e delle cortigiane compiacenti al suono del liuto: un giro,
solo un giro, mentre intorno tutto girava.
Aveva
un intero luna park a disposizione. Poteva fare un giro solitario
sull’autoscontro o salire sul vagoncino con i cigni del 'Tunnel
dell’amore' o ridere di se stesso nella baracca degli 'Specchi
deformanti'. Avrebbe potuto provare a far centro e vincere un
pesciolino rosso al 'Tiro a segno', ma aveva paura dei fucili, anche
di quelli caricati con i proiettili di gomma. Poteva tentare di
infilare una pallina da ping pong in quei maledetti vasetti di vetro
dal collo strettissimo oppure infastidirsi al contatto con le finte
ragnatele del 'Tunnel dell’orrore', ma niente lo attraeva, tutto
gli sembrava vecchio, scontato, anacronistico e fuori dalla storia,
soprattutto la sua. Si sentiva fuori luogo, fuori posto, fuori
contesto. Lui, l’unico essere umano presente in quello spazio di
luci e colori e profumo di zucchero filato e croccante di nocciole,
che non godeva del divertimento di nessuno dei giochi intorno. Sulla
destra, quasi nascoste da un 'Toboga' che doveva aver vissuto
stagioni migliori, vide le sagome dei cavalli di una giostra. La
musica che sentiva era quella dimenticata di un carillon. Gli tornò
in mente la scatola nera di legno di sua madre, quella che bastava
sollevarle il coperchio per veder uscire una ballerina calamitata che
faceva sempre lo stesso giro, anche se la musica cambiava.
Gli
sembrava, bambino che aveva delegato agli occhi il compito di
raccontargli la vita, di essere l’unico spettatore in un immenso
teatro sul cui palcoscenico una silfide in tutù inanellava giri
armonici di un balletto pieno di sfumature e privo di passi incerti.
Si beava di quella figurina dipinta a mano, che la sua fantasia
trasformava in un essere talmente bello da assumere all’improvviso
le sembianze di una fata in miniatura, pronta a compiere la sua
quotidiana magia senza l’aiuto di nessuna bacchetta. Quella
giostra lo incuriosì e le si avvicinò lentamente, gustandosi con
gli occhi la distanza che andava diminuendo passo dopo passo. I
cavalli erano bianchi, neri e rossi, e i finimenti dorati brillavano
nel buio di una notte senza stelle come luci di
un’eterna illusione. Non c’era nessuno. Il botteghino era
desolatamente vuoto. La giostra girava per conto suo, girava e girava
ancora intorno a se stessa, come un’anima persa in attesa che una
Venere qualsiasi le indicasse il Nord. Nico guardò allora da ogni
parte, e si rese conto che l’inebetito e la sintesi carnosa della
bambola gonfiabile non erano più sulla scena. Era rimasto solo,
mentre tutto intorno funzionava come sempre, come per tutti, come per
il mondo intero. Dal
momento del suo arrivo nulla era cambiato: le luci, i colori, gli
altoparlanti starati, le voci gracchianti, erano rimaste le uniche
vere presenze nel niente assoluto. Toccò un cavallo. Quello rosso.
Poi iniziò a girare come la giostra, seguendola nel suo percorso,
senza disturbare i cavalli intenti a fingere un galoppo presente solo
nella sua fantasia e, chissà, forse anche nella loro. Carezzando il
cavallo bianco, si trovò a incrociare gli occhi con quelli di vetro
dell’animale di cartapesta. Sarà stato il suo disagio, o forse la
fresca sensazione di benessere che non avvertiva da tempo, ma avrebbe
giurato che quel cavallo gli avesse fatto l’occhiolino. Per avere
la certezza di non trovarsi in un sogno, nell’ennesimo assurdo
sogno delle sue notti senza sonno, si accese una sigaretta e questa
volta, con la punta arroventata, si sfiorò il dorso della mano. Era
sveglio, si trovava in un luna park deserto ma funzionante, e il
cavallino bianco gli aveva appena fatto l’occhiolino. Che qualcosa
non funzionasse, fu il primo pensiero che gli venne quando sentì una
voce che lo invitava a salire sulla giostra. Su quella giostra che il
carillon rendeva viva e intrigante, vera e falsa nello stesso
momento, un assurdo e un assioma, una frottola raccontata a se stesso
e una fuga in avanti fra le nebbie di mille contorsioni mentali. Ci
salì, sulla giostra, e sedette prima sul cavallo nero, quello che
non aveva toccato; poi, via via che il giro proseguiva, cavalcò
tutti i cavalli come se si trovasse nei verdi pascoli del cielo, fino
al momento in cui si rese conto che ciò che avvertiva sotto di sé
non era il duro della cartapesta, ma il morbido di una groppa. Spiccò
un salto dei tempi migliori, e cercò di allontanarsi in fretta da
quel luogo che poteva anche essere magico ma che, per un istante, lo
aveva terrorizzato.
Girava.
Tutto girava. Nico si rese conto che intorno a sé tutto girava come
fosse l’unico movimento possibile, il meno faticoso, il meno
impegnativo. Ripensò a tutti i giri che nella sua vita aveva
compiuto, senza che ci fosse una giostra un po’ pazza a rendergli
il cammino più gradevole, meno faticoso,
più emozionante. Ripensò ai giri intorno alle sue idee e alle sue
parole, alle sue prese di posizione e ai suoi viaggi interminabili
alla scoperta dell’infinito. Pensò al letto sfatto che avrebbe
trovato a casa, e all’odore acre di muffa che gli avrebbe fatto
compagnia appena si fosse ritrovato fra quelle mura. Ripensò ad
altri odori, ad altre case, ad altre mura e, nonostante in molte di
queste non avesse mai avvertito l’odore di muffa, quello che
spiccava prepotente era il puzzo dei pensieri morti che vagavano in
cerca di qualcuno che sapesse apprezzarli. La giostra era ancora lì,
girava e continuava a girare. Tutto, intorno a Nico girava. Perfino
il mondo, quello che aveva cessato di attraver-sare in un giorno in
cui la sua vita aveva detto basta alle finzioni. Lui aveva accettato
di buon grado la proposta della sua esistenza, e ne aveva fatto
tesoro senza rimpianti, senza alcuna amarezza e con la certezza del
costo che avrebbe dovuto pagare. Nico lo aveva
fatto e lo aveva pagato, quel
costo, come ora avrebbe voluto pagare il mezzo giro sulla giostra,
prima che la cartapesta diventasse carne e il carillon smettesse di
suonare.
Girava.
Tutto girava, e girava pure il mondo. La musica aveva smesso di
torturargli le orecchie, le luci si stavano abbassando. Tutto
avveniva senza che intorno si avvertisse una presenza umana
qualsiasi: né un gatto né un cane, e neppure un topo sospettoso o
un gorilla geloso. Nico accese l’ennesima sigaretta di una sera che
stava trasformandosi lentamente in notte. La tenne stretta fra i
denti e infilò le mani nel giubbotto. Tirò fuori un chewing-gum
scartato e mangiucchiato e lo mise in bocca: un po’ di mentolo
riuscì ancora ad assaporarlo.
Girava.
Tutto girava. Intorno a Nico quella sera girava
il mondo intero. Forse il mondo non aveva nulla da fare, oppure il
dolcissimo Nico era riuscito a fargli intravedere un barlume di
tenerezza perduta fra mille fiocchi di neve scesa d’estate. Quando
si rimise sulla strada, inseguendo l’ultima spirale di fumo
dell'ultima sigaretta, pensò al mondo che gira e a se stesso, che
quella sera aveva girato con il mondo. E con un cavallo di cartapesta
bianca con i finimenti d’oro che gli aveva fatto l’occhiolino.
Girava.
Tutto girava. E girava anche il suo mondo.
Arturo
che dimenticò di esistere.
Volare.
Era l’unica soluzione possibile. Facile e immediata, come l’alba
del pescatore acquietato da una notte di sonno. Il fatto è che pure
volare rappresentava un problema. Prima di ali, poi di vento. E
Arturo sapeva che senza ali e vento, non si vola. Tutte le storie
della sua vita erano disegnate sotto di lui. Volteggiandoci sopra
appena un po’, e senza stravolgere le leggi dell’aerodinamica,
aveva avuto la possibilità di ripercorrerle una a una. Al contrario
di quanto gli era accaduto molte altre volte, Arturo aveva deciso di
usare uno sguardo più benevolo verso se stesso. Si era imposto di
volersi bene (quasi), di abbracciarsi teneramente e di darsi quei
baci che gli erano mancati in anni di assenze devastanti e sguardi
che si perdevano nell’aria, esattamente come le parole. “Non
posso sempre violentarmi” – si diceva. E ne era convinto, Arturo,
perché gli anni e il tempo trascorso gli avevano insegnato a essere
calmo, paziente, riflessivo, aperto, disponibile fino allo stato di
zerbino sul quale pulire suole sporche di niente, così, tanto per
calpestarlo. Le rivedeva tutte, le storie. Quelle belle e quelle
brutte. Quelle con un senso e quelle senza. Poi però, quando
arrivava la notte e si accendevano le luci del più falso presepe del
mondo, Arturo si guardava allo specchio ritrovandosi davanti un
ectoplasma. Cercava in tutti i modi di ridarsi una dignità, ma era
troppo evanescente quella figura per definirla umana. Passavano le
ore e i giorni, i tramonti seguivano albe sempre più asfittiche, e
il rincorrersi di colori e sensazioni, di stati d’animo e di
delusioni, di momenti di esaltante incoscienza e di depressione allo
stato puro erano, per Arturo, le altalene della sua esistenza. Un
giorno decise di comprarsi un paio di scarpe nuove. Non lo faceva da
una vita. Le dita dei suoi piedi avevano una forma strana e le scarpe
impiegavano un po’ prima di adeguarsi a una dimensione non
contemplata nel manuale d’uso dei calzolai. Maròn, come quelle che
indossava al primo incontro con Elena. Con i lacci e un luccichio
sinistro che faceva tanto cabaret. Strette, come sempre. Fastidiose,
come sempre. Opprimenti come il senso di sconforto che lo
accompagnava a casa dopo l’ennesima recita nel suo teatro dei
burattini. Le aveva comprate maròn, le scarpe, perché dovevano
servirgli a non fare una pessima figura quando qualcuno lo avrebbe
raccolto dall’alto del suo viaggio di sola andata. “Mica sono un
poveraccio!” Pensò. E si addormentò. Ore tormentate, la notte di
Arturo. Quelli che stava vivendo non erano sogni, non vedeva salti
irreali di situazioni, ma lo scorrere lento di inesauste scene di
vita sfibrata. Le scarpe nuove erano posate sullo scendiletto e
l’odore di cuoio gli entrava dritto nel naso. Fu accendendosi una
sigaretta che si rese conto che una cosa avrebbe potuto farla.
Dimenticarsi di esistere, di avere un nome, una storia da raccontare
e un paio di scarpe maròn. Per il resto ci sarebbe stato domani.
il cavallo bianco c'è, l'occhiolino pure. Monta in sella e vai a farti una cavalcata sul lungomare. Nel tragitto potresti riconoscere l'amore. E quindi non galoppare, trotta.
RispondiEliminaChapeau.
michaela
Non occorre tutto questo ambaradan per riconoscere l'amore, lo sai. A volte basta uno sguardo. Poi, letterariamente, volo dove posso...
RispondiEliminaforse non aveva paura di essere felice ma non voleva esserlo perché, come diceva Charlie Brown, ogni volta che lo era accadeva qualcosa di brutto.
RispondiEliminarinunciare a essere felici per paura di qualcosa di brutto è folle. la felicità annulla ogni paura. la felicità fa volare.
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