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venerdì 2 maggio 2014
Sarà stata anche la festa dei lavoratori, ma di lavoro si muore ancora. 330 sono le vittime dal primo gennaio 2014
Le morti sul lavoro sono come la
pedofilia, il femminicidio, le zoccole di Berlusconi, i vaffanculo di
Grillo, la terra dei fuochi, il sovraffollamento delle carceri, i
crolli di Pompei e gli 80 euro in busta paga: una moda. Prima che i
dis-organi di informazione ne diano conto deve scoppiare l'epidemia, una
massa tale di fatti impossibili da velinare. L'interesse scema dopo
un po', ma non perché i fenomeni di cui sopra si fermino o vengano
risolti, ma perché la gente, il lettore, il telespettatore si
annoia, si rompe le palle, ha bisogno di altre notizie, altri
stimoli, altri interessi. E se togli (dagli interessi) la figa, il
cibo e il vino be', resta poco, veramente poco. Solo se sfogli i
giornali non padronali, non funzionali, non embedded, ti rendi conto
che quel problema non è stato risolto anzi, peggiora. Così, uno dei
cavalli di battaglia dell'Innominabile, le morti sul lavoro, come
nessun altro fenomeno segnale di inciviltà e incultura, è stato relegato
nelle pagine interne dei giornali e nessuno ne parla più. Poi arriva
l'Osservatorio morti sul lavoro, e ci dice che dal primo gennaio le
vittime sono state 169, il 20,3 per cento in più dello
stesso periodo 2013. E questi sono dati riferiti solo alla gestione
Inail che, come si sa, non assicura tutte le categorie di lavoratori.
Perché complessivamente, i morti sul lavoro sono stati 330, una
strage. Si parla poco di Thyssen, e lo si fa se ci sono processi in
corso. Ma non si parla affatto delle altre “centrali” della
morte: il cantiere della Metro C di Roma, la fabbrica Marcegaglia di
Ravenna (proprio quella della prossima presidente dell'Eni), delle
aziende ittiche di Molfetta, dell'Ilva di Taranto, tutte recidive e
al centro di un contenzioso sulla sicurezza che dura da anni. Perché
questi fatti accadono si sa. In venti anni, da quando Silvio doveva
fare qualche favore ai suoi amici industriali, la sicurezza sul
lavoro è diventato un optional e tutto in nome e per conto della
produttività e della competitività del mercato globalizzato.
Insomma, gli operai italiani potevano morire o ammalarsi di cancro,
proprio come un lavoratore cinese, pakistano, indiano, vietnamita e
cambogiano. Il culmine di questo furore industrialistico lo raggiunse
Maurizio Sacconi, il ministro del Lavoro responsabile della rottura
dell'unità sindacale, marito di Enrica Giorgetti, direttore generale
di Federfarma, che fece incassare alle sue aziende tre miliardi di
euro per un vaccino inutile, quello contro la Sars. Maurizio Sacconi (oggi punta di diamante del NCD) nel 2009 si inventò, e questa non fu che una delle nefandezze, il
decreto “salva manager” che, introdotto nel Testo Unico di
Berlusconi, doveva servire a salvare il culo ai dirigenti della
Thyssen. Quel decreto, come quello sulla tempistica per redarre il
documento sulla valutazione dei rischi di una nuova impresa, sono
stati la causa della messa in mora dell'Italia da parte della UE che
ci ha accusato di non aver recepito le norme comunitarie in materia
di sicurezza sul lavoro. Nel mirino della UE è finito anche il
decreto lavoro di Matteo Renzi nel quale si eliminava la formazione
esterna all'azienda per gli apprendisti, compreso il corso sulla
sicurezza. Insomma, questo è il paese che se muori sul lavoro e sei
giovane, la tua vita vale 1936,80 euro. Tanto ha riconosciuto l'Inail
a Graziella Marota, madre di un ventenne vittima del lavoro.
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