Eia
eia Qui Quo Qua
Eppure
“Eia eia... “con quel che segue e che non ci va di citare, aveva
nobili origini. Era addirittura l'urlo di battaglia coniato da quel
geniaccio sessuofobico di Gabriele D'Annunzio. Ma i fasci, la cui
creatività è pari a quella di Conan il barbaro, se ne appropriarono
rendendola praticamente una barzelletta, un grido soffocato nella
vergogna di pseudo machi malati di egocentrismo frullato come un
frappè. Per evitare che espressioni di stupidità si ripetessero
dopo il disastro del ventennio, lo stato italiano, il 10 giugno 1952,
promulgò una legge che rendeva definitiva la XII disposizione
transitoria della nostra Costituzione sulla riorganizzazione del
Partito Fascista. La legge, numero 645/1952, vietava (e vieta) ogni
manifestazione apologetica di un fenomeno che fu, compresa tutta
l'attrezzaglia che lo rendeva drammaticamente comico, un disastro
storico. Oggi questa legge è sistematicamente violata da personaggi
che non sappiamo ancora come definire, accontentiamoci di “figli
della Lupa”, così nessuno si offende.
A
Milano, nella civilissima Milano che non è Roma, e quindi resta
Milano, le manifestazioni di nostalgici del fascio si susseguono a
ritmi ininterrotti. E si portano appresso tutto l'antico armamentario
gestuale figlio dell'Impero d'Eritrea, di Etiopia, di Abissinia e di
Albania, compresi il saluto romano, l'urlo di battaglia e Faccetta
nera. Se a farli è un gruppo di ragazzotti rasati con la svastica e “Dux” che spicca un po' dappertutto tatuato su corporature ridicole, la questione resta relegata nell'ambito della pura
ignoranza. Ma se a compierli è un prete, la faccenda si fa
improvvisamente seria e degna non del tribunale ecclesiastico che non
prevede il reato di “apologia del fascismo”, ma di quello
italiano che una legge ce l'ha e dovrebbe applicarla.
Don
Orlando Amendola, è il cappellano del Campo X del cimitero di
Milano, il luogo in cui sono sepolti i combattenti e reduci della Repubblica Sociale. Evidentemente, vivere ogni giorno a
contatto con i fascisti della RSI, pure se morti, deve aver
condizionato il prete che, da vero capopopolo, ha benedetto la
cerimonia in ricordo di Salvatore Umberto Vivirito, militante di
Avanguardia Nazionale, rapinatore e omicida, morto durante uno
scontro a fuoco con la polizia il 21 maggio del 1977. “Per
il camerata Umberto Vivirito… presente! Per il camerata Umberto
Vivirito… presente!” Ha urlato due volte il prete e, come se non
bastasse, ha teso in avanti il braccio destro con la pugna dello
squadrista perfetto. Onestamente, detto fra noi, non sappiamo se
piangere o ridere, se incazzarci con chi non compie il proprio dovere
ammanettando immediatamente il nostalgico, o con la Chiesa che
tollera l'intollerabile. Sappiamo solo che se qualcuno ci urlasse in
faccia “Eia eia”, noi gli risponderemmo, ridendo, “Qui Quo
Qua”.
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