Quando
finisce la speranza
C'è
qualcuno che vuole che la nostra vita non sia più la stessa.
Colpiscono la normalità, non l'eccezionalità, colpiscono dove e
quando nessuno se lo aspetta. La mostruosità è questa, il resto è
guerra. Conviviamo con il terrorismo sperando che non tocchi a noi
esplodere insieme alla bomba o essere travolti da un camion fatto
impazzire da mani esperte. Speriamo che tutto questo accada a
chilometri di distanza perché vicino ci farebbe male. Un attentato è
come un terno al lotto, imprevedibile ma, al contrario del terno non
ci porta soldi, solo un terribile senso di impotenza.
Quando
gli obiettivi sono militari, sembra quasi che ce se ne faccia una
ragione, ma non c'è nulla di più sbagliato e lo sappiamo benissimo.
Questa volta, un attentatore (martire lo definiscono), ha deciso di
colpire il futuro, quelli che dovrebbero essere i dirigenti di domani
anche se per una sera vanno ad ascoltare una popstar qualsiasi,
Ariana Grande. Ragazzine e ragazzini, bambine e bambini a Manchester
per una festa, per cantare insieme le canzoni del loro mito, quella
cantante americana con il cerchietto in testa che sembra Minnie. I
genitori li accompagnano e li andranno a riprendere poi, sono tutti
piccoli, gli spettatori dello show, non c'è nulla di cui
preoccuparsi.
Invece,
come accade negli incubi, la storia non va come avrebbero voluto.
Arriva Salman Abedi e si fa espoldere, ha 23 anni, è libico e non si
capisce perché debba far fuori ragazzi più piccoli di lui. I morti,
per il momento, sono 22. Ci sono bambini vittime di quella violenza
cieca e ingiustificata che sta insanguinando il mondo. 22 bambini, la
speranza.
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