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sabato 7 settembre 2013

La storia di Silvio e della “Lucertola di Gesù Cristo” dell'Amazzonia

Ci piacerebbe tanto commentare la vittoria di Gianfranco Rosi (Sacro GRA, un documentario, Leone d'oro) e il Gran Premio della Giuria a Tsai Ming-Liang alla Mostra del Cinema di Venezia, la 70ª in ordine di tempo, un risultato che premia il coraggio di Alberto Barbera (e su questo non c'erano dubbi), e dà un timido segnale di rinsavimento post-hollywoodiano, ma ci tocca parlare d'altro, riservandoci di approfondire il verdetto veneziano da un'altra parte, su altre pagine. E di chi deve parlare un soggetto reduce da quattro giorni di stacco (però non totale) dalle vicende italiote se non di Silvio? Altro che tormentone. Il fatto è che il Nostro, paragonato ai due “mostri” di cui sopra, si riduce drasticamente a livello di microrganismo: un insignificante figurante trasformato in protagonista da una pletora di accattoni che manco Pier Paolo (Pasolini). Silvio è antitetico alle idee stesse di cultura, di sensibilità, di emotività, del piacere unico che si prova guardando un bel film. Lui è una sorta di continuatore delle farse di Fatty Arbuckle (i lettori di Hollywood Babilonia avranno sicuramente capito il perché di tale accostamento), un personaggio che sullo schermo faceva ridere a crepapelle, ma che nel privato era un capo Unno di quelli che dove passava non cresceva più l'erba. Eppure siamo qui a parlarne ancora, senza ritegno, dopo una sentenza di terzo grado passata in giudicato, dopo le risate irrefrenabili di tutto il mondo civile e perfino della Lucertola di Gesù Cristo della Foresta pluviale dell'Amazzonia, quella che cammina sull'acqua, come dopo ogni aggiornamento delle vicissitudini del redivivo Pellico che, non a caso, si chiamava anche lui Silvio. Se non avessimo continuato a seguire le notizie della politica, avremmo pensato di vivere in uno di quei filmacci da cabaret di quart'ordine che piacciono tanto a Silvio (quello pregiudicato) e alle sue industrie e invece, purtroppo, la realtà supera di gran lunga perfino le battute più intelligenti di Checco Zalone. Tutto ciò è un delirio, con Domineddio che ricatta pure la perpetua di Don Abbondio, perché con il curato non c'è partita. E allora via con le minacce a LettaLetta, al di lui secretaire 6 Gennaio, al Birraio di Bettola che vorrebbe tanto imitare quello di Preston ma non ce la fa, e a tutto il Pd che, poverino, se fosse un soggetto vivente e non la sigla di un partito, starebbe tutto il giorno a farsi canne invece che occupare la scena politica di un paese alla frutta. Pensate, dopo aver ciurlato nel manico con la storia del ricorso alla Corte per i Diritti dell'Uomo, i geni del Pdl si sono inventati la revisione del processo, addirittura un nuovo processo che cancelli di fatto le tre sentenze già emesse (e passate in giudicato) e ridia una verginità da fedina penale illibata al più grande statista che la storia repubblicana ricordi. C'è da dire che la revisione del processo può essere richiesta. Spesso è accaduto con sentenze passate in giudicato ma di mezzo c'era una condanna all'ergastolo, mica a un anno di servizi sociali nel collegio delle Orsoline. La revisione è possibile, dicevamo, nel momento in cui intervengano fatti nuovi, emergano insomma novità o vengano sottolineati particolari ritenuti irrilevanti nelle prime fasi di giudizio. Ora, sapete qual è il fatto nuovo? Frank Agrama, che già dal nome è tutto un programma, non sarebbe l'occulto manovratore dei diritti televisivi alle stelle per creare fondi neri, ma uno stimato e rispettato mediatore cinematografico conosciuto in tutta Europa per la sua indiscussa e indiscutibile professionalità. Sembra che questo fatto, di per sé, possa comportare la revisione del processo a carico del Capataz. Nessuno ci crede ma sapete com'è... a casa di Pinocchio le menzogne non sorprendono più nessuno. Domani riunione della Giunta per le elezioni. Scommettiamo in un rinvio da record? No? In effetti...

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