Quel
“chi?”, detto in un certo modo, deve suonare alle orecchie di
qualcuno peggio del famigerato “cornuto”. Per molti aspetti ciò
può essere vero, il dolore per le corna dopo un po' passa. Una volta
rientrate nel loro alveo naturale, quelle vergognose appendici
finiscono per essere dimenticate. Ma la sindrome da anonimato che un
semplice “chi” con il punto di domanda finale (pur essendo tutti
i giorni in tv e sui giornali) deve portarsi appresso, al
destinatario suona come, se non peggio, una infamia. È il caso
di Stefano Fassina, ex viceministro dell'economia, che ha rassegnato
irrevocabilmente le dimissioni dopo che il segretario del suo partito
alla domanda: “Che ne pensa della proposta di rimpasto formulata
dal sottosegretario Fassina?”, ha risposto con un “chi?” che ha
fatto sganasciare dalle risate la folla dei giornalisti presenti alla
conferenza stampa di Firenze. E dire che fino a ieri al povero
Fassina ne avevano dette di tutti i colori. Da “ignorante” a
“laureato per corrispondenza”, da “inconsistente” a
“visionario della domenica” fino al terribile “analfabeta”,
Fassina, da responsabile economico del Pd, è stato trattato
malissimo a tutte le latitudini ma, stoicamente, è sempre rimasto al
suo posto, fedele allo scopritore e mentore Piergigi Bersani,
campione di assenteismo a Montecitorio, nonché responsabile
smacchiatore di una delle più cocenti sconfitte elettorali dei
democrat. È bastata però una battuta di Matteo, ché l'ultimo
esponente della sinistra Pd nel governicchio LettaLetta, se ne
andasse sbattendo la porta. Diciamolo, Fassina non aspettava altro. A
lui questo governo non piace, questa alleanza poi, la aborre. Fine
del viaggio, fine della spocchia, fine della resistenza. E il Pd è
quel partito padronale di cui tutti temevano la svolta. Domanda. Ma
in un partito che ha fucilato alle spalle il suo padre fondatore con
101 raffiche di vergogna, un po' di disciplina, alla fine, serve o
no?
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