Qualche
fischio, un po' di battute, spesso ironia ma mai nessun autore che
abbia abbandonato una qualsiasi sala della Mostra del Cinema di
Venezia in presenza di Bondi o di Galan o di Urbani, per non parlare
di Gianni LettaUno o di Carlo Rossella. Per vent'anni le amazzoni
berluschine e i quacquaracquà berluschini, hanno passeggiato
indisturbati sul red carpet del Festival e partecipato a tutti i
party organizzati dagli autori-produttori-distributori
cinematografici di questo paese. In quegli stessi anni abbiamo
assistito a voltafaccia clamorosi, a “compagni” diventati
improvvisamente un po' meno “compagni”, a leccate di culo che
manco a Timbuktu. Sullo sfondo la possibilità di lavorare per
Medusa, la più grande impresa cinematografica privata, o per la 01
Distribuzione, cioè Rai Cinema, cioè la Rai, la più grande impresa
cinematografica pubblica. Univa, le due imprese, la proprietà:
Silvio Berlusconi in prima persona o attraverso figuranti e
prestanome. Così, a parte qualche coraggioso indipendente, il cinema
italiano aveva un solo padrone e centomila referenti, sempre e solo
lui: Silvio I° Imperatore di Arcore. Bastava andargli contro che non
si lavorava più. Nel pubblico e nel privato diventava impossibile
trovare i soldi per produrre un film, proibitivo girarlo, titanico
distribuirlo. La politica di Silvio era stata chiara fin dall'inizio,
fin dall'editto bulgaro: o con me o contro di me, e se sei contro di
me non lavori. Resteranno scolpiti nel marmo i commenti dei
berluschini al Nobel di Dario Fo, ma anche gli schiaffi bondiani ai
successi a Cannes di Gomorra, del Divo, di Draquila e della Palma
d'oro a Elio Germano per La nostra vita. Insomma, qualsiasi film non
possedesse il plot narrativo berlusconiano del “cazzo”, “fica”
e “vaffanculo” non aveva diritto di cittadinanza, perché in
Italia era vietato perfino pensare “diverso” figuriamoci esserlo.
E oggi è peggio di ieri, visto che gli integralisti del Pdl stanno
lottando come talebani infoiati contro la legge sull'omofobia. Il
loro pensiero è semplice: “Non sono io intollerante, sei tu che
sei frocio”, peggio del vecchio petroliere texano razzista. Ma
torniamo a Venezia. Alla conferenza stampa di presentazione delle
Giornate degli autori, Andrea Barbagallo, presidente dell'Anica, ha
detto: “Le associazioni del cinema, unite e compatte, riterranno
sgradita la presenza di chiunque del governo voglia presenziare a
manifestazioni veneziane, annunciando fin d'ora di uscire dalle sale
di proiezione se questo dovesse accadere”. Intendiamoci, e lo
diciamo per sgomberare il campo da equivoci, la protesta della gente
del cinema è sacrosanta. Il taglio del tax-credit mette a serio
rischio il cinema italiano, anzi, qualcuno (come Lidia Ravera,
assessore alla Cultura della Regione Lazio), dice che lo condanna
definitivamente a morte. Siamo d'accordo con l'autrice di Porci con
le ali. Come eravamo incazzati quando Tremonti raspava il Fus perché la
lima non bastava, come quando ci siamo schierati dalla parte dei
lavoratori del Valle o di quelli di Cinecittà. Quello che ci fa
girare terribilmente le palle è che nessuno se ne andava quando
arrivava Bondi o Noemi Letizia sbarcava al Lido dal motoscafo. Per
non parlare delle presenze ai party, ai ricevimenti, alle serate
glamour di un Festival agonizzante. Ai teorici del “con la cultura
non si mangia e quella baldracca di Mimì muore sempre di tisi”,
non si rispondeva mai per le rime, perché l'unica rima era quella
“leccare-lavorare” che non c'entra una mazza con “cuore-amore”.
Ci fa piacere, comunque, sapere che per la prima volta da anni, gli
autori, i produttori e i distributori sono uniti e compatti. Ma alla
Rai e alla Medusa lo sanno?
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