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mercoledì 1 maggio 2013

Minchia, che Primo Maggio!

Immagine di Francesco Del Zompo
Per noi ragazzini, il Primo Maggio era il giorno del panino con la porchetta e del bicchiere di aranciata. Al mio paese se ne festeggiavano due, uno organizzato dalla locale sezione del PCI, l'altro dal circolo Acli. I comunisti e i cattolici, sull'onda di Guareschi, non è che andassero molto d'accordo, non si sarebbero mai sognati di governare insieme, in chiesa non c'entravano manco da morti. A noi, ragazzini ignoranti delle cose della politica, quella situazione piaceva parecchio perché i panini con la porchetta erano due e due pure i bicchieri di aranciata. Ad accoglierci al circolo Acli, c'era l'assistente spirituale dell'associazione, nella sezione del PCI, il segretario locale. Tutto sommato erano due ritualità non dissimili perché, alla fine, le celebrazioni erano e sono tutte uguali, compresi il gusto della porchetta e quello dell'aranciata. Allora il lavoro c'era. L'Italia era un paese in ricostruzione e la mano d'opera era richiestissima, soprattutto al Nord dove si stava giocando la scommessa dell'industrializzazione di un paese fino ad allora, a trazione agricola. Sembra trascorso un secolo ma non è così. È che sono cambiati gli uomini più degli assetti, i governanti più che la struttura del paese, la politica più che l'elettorato passivo. Proletari eravamo fuori e proletari siamo rimasti dentro. La differenza è che quella politica ci ha permesso di studiare, di evolverci, di farci vivere dignitosamente, quella di oggi è tornata a discriminare. Uno dei meriti di quella politica e dei costituenti, fu che decisero che tutti potevano apprendere a prescindere dallo stato civile della famiglia. Si dotò di strumenti (dei quali usufruimmo anche noi), che portarono a una sorta di parificazione sociale sconosciuta fino ad allora, anche se a scuola, soprattutto alle elementari, i figli dei medici, degli avvocati, dei farmacisti, dei notai e dei preti, erano guardati con occhio diverso da quelli dei muratori, degli imbianchini, dei calzolai e dei comunisti. Il figlio del sindaco poi, fino a quando il padre restava sindaco, risultava inevitabilmente il più bravo. Non c'erano esodati. Non c'erano “né-né”. Il precariato era solo una parola semisconosciuta e se uno lasciava la scuola al termine del percorso di studio minimo garantito dalla costituzione, lo faceva per andare a lavorare. La disoccupazione giovanile non era al 37 per cento e mai ci si sarebbe immaginato che, in un solo mese (marzo 2013), 70mila donne avrebbero perso il posto di lavoro. I suicidi erano una questione di follia o di follia d'amore, perché i matti veri stavano in manicomio dove gli toglievano anche le stringhe delle scarpe. Non c'era un Riccardo, o almeno quello che c'era giocava solo a biliardo, che si fotteva i soldi dei contribuenti per comprarsi uno yacht, e ormeggiarlo in Tunisia a un miglio dalla villa di Craxi. Non c'erano i baluba vichinghi del Nord, perché erano sì baluba, ma il loro unico interesse era la fabrichètta mica il negher. E non c'era neppure Silvio, che allora si faceva pagare i compiti di scuola rimediando così i soldi che gli sarebbero poi serviti per costruire Milano2. Non c'erano i mangiapane a tradimento dei deputati dei giorni nostri, perché una volta, personaggi come Razzi e Scilipoti, sarebbero stati sommersi dalle pernacchie, mica rieletti. LettaLetta però c'era. Già allora. Meglio, c'era lo spirito che incarna. Quella democristianità doc che riempiva gli uffici postali di impiegati e postini abruzzesi, i treni e le stazioni con calabresi e veneti, i tribunali con i pugliesi e i campani. Quella democristianità si guardava bene dal privilegiare i parenti, ma non perché odiasse il nepotismo, solo perché i voti dei parenti li avevano già e dovevano allargare la base elettorale per cui, i posti di lavoro, andavano sempre a giovani con famiglie numerose. I figli unici erano degli sfigati, gli orfani manco a parlarne. Però oggi si fa festa. Si festeggia il lavoro che non c'è. Si suona, si canta, si balla, ci si ubriaca, ci si attacca a uno spino, ci si dimena seguendo il ritmo di Massimo Bray, neo ministro dalemiano della cultura, teorico del potere terapeutico della pizzica. Si concerteggia. Fabri Fibra s'incazza perché non lo vogliono a Roma, a San Giovanni. L'accusa? Scrive testi a cazzo di cane. I sindacati si ritrovano tutti e tre, dopo cinque anni, a Perugia. Per quello che può valere e servire è una buona notizia. Poi ci ricordiamo dei cavalier serventi Bonanni e Angeletti e la voglia di unità subisce un duro colpo. La triplice è morta, il lavoro è morto, l'Italia è in coma cerebrale, il Pd si è dissolto per autoscombustione, LettaLetta prende in mano la fionda sapendo che non lancerà neppure un sassolino, e il M5S fa secchi senatori perché parlano rifiutandosi di pappagalleggiare. Resta, stagliata netta sull'orizzonte di un tramonto maldiviano, la figura del più grande statista che la storia repubblicana ricordi: Silvio Berlusconi. È lui il protagonista unico e indiscutibile degli ultimi vent'anni di vita patria. È lui che segnerà in maniera indelebile le sorti della nazione. È lui che giganteggia in questa folla di nani umani e di pensiero. Il Primo Maggio è tutto suo. Il primo giugno pure e tutti i primi di tutti i mesi. Per sempre. Nei secoli dei secoli. Amen. 

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