Non si
tira la corda con un democristiano, lo sanno anche i bambini. I DC
sembrano tolleranti, amiconi, baciano, abbracciano, danno pacche
sulle spalle, sorridono perfino. Poi, quando c'è da arrivare al sodo
ci arrivano eccome, a costo di passare sul cadavere della nonna. Non
si scherza con un democristiano, perché hanno tutti uno spiccato
senso dell'umorismo, ma quello di Andreotti, talmente sottile da
tagliare come un rasoio (letteralmente). Così, dall'alto della sua
perspicacia e acume politico, Michaela Biancofiore sta provando in queste ore cosa
significa ciurlare nel manico con un balenottero bianco. Il fatto.
Come tutti i suoi colleghi del Pdl, ministri e sottosegretari,
rispondendo ai desiderata del Capataz, La Biancofiore-simbolo
d'amore, ha presentato come una brava scolaretta le dimissioni.
Un po' distratta dagli eventi, un po' impegnata dal parrucchiere, un
po' sopra le righe come spesso le accade, la bionda pasdaran del
Popolo della Libertà, non si è accorta che, dopo il voto al Senato, tutti i suoi colleghi
avevano ritirato le dimissioni. Passata la
linea Alfano, sono diventati quasi tutti alfaniani e, quindi,
tenutari dei loro incarichi di governo. Pensando che la riconferma
nel ruolo fosse cosa automatica, la Michaela si è presentata regolarmente al Ministero della Funzione Pubblica e
della Semplificazione per riprendere il suo lavoro. Ma, arrivata all'ingresso le hanno
detto: “Scusi, ma lei chi è? E soprattutto che vuole?” Facendo
finta di cadere dalle nuvole, la berluschina doc si è incazzata come
una iena himalayana dopo essersi bruciata le zampette sulla neve, e,
ricordandosi di non aver ritirato le dimissioni, ha gridato: “Questo
è mobbing politico”. Intervistato da Maria Latella, LettaLetta è
stato laconico: “Ma che vuole che le dica, la Biancofiore non ha
ritirato le dimissioni e io le ho accettate”. Mai far incazzare un
DC perché, nonostante il cognome sia anche il titolo dell'inno della
Balena Bianca, quando c'è da saldare i conti senza rilasciare la
ricevuta i democristiani non sono secondi a nessuno.
Sandra
Zampa, ex portavoce di Romano Prodi, racconta in un libro di prossima
uscita chi e perché trombò il Professore. Brevemente, questa la
storia. Appresa da Piergigi Bersani la notizia della sua candidatura
al Quirinale, Prodi, che non è un fesso, prese il telefono e
dall'Africa telefonò, nell'ordine, a D'Alema, Mario Monti e Stefano
Rodotà. Baffetto gli disse papale papale che a lui non era andata
giù la modalità con la quale Prodi era stato nominato
dall'assemblea del Pd. E che cazzo, tutta quella democrazia,
l'applauso a scena aperta, il mancato ricorso alle sotto-intese con
tanto di posti da assegnare a tavolino, a lui non erano affatto
piaciuti. Nelle prime elezioni, due dei suoi avevano provato,
votandolo, a far capire che al Leader Maximo sarebbe tanto piaciuto
salire al Quirinale. Ma la cosa non passò, nonostante sul suo nome
anche Silvio avrebbe potuto convergere. Così Prodi, che è un volpino, capì che non avrebbe mai avuto il voto dei dalemiani. Seconda
telefonata a Mario Monti. “Caro Romano – sembra gli abbia
risposto il Professore2 – io ti voto se mi ridai la Presidenza del
Consiglio”. Prodi, ovviamente, lasciò cadere la proposta
giocandosi anche i voti di Scelta Civica. Restava la terza
telefonata, quella a Rodotà. Se il Professore3 si fosse ritirato
dalla corsa, i pentastelluti avrebbero potuto votare Prodi, rientrava
fra gli eleggibili della Rete e quindi nessuno scandalo. La risposta
di Rodotà invece, fu un'altra. “Io mi ritiro – disse a Prodi –
solo se me lo chiede Beppe Grillo, altrimenti continuo la mia corsa
fino alla fine”. Sandra Zampa racconta anche quello che fu il
commento del Capo Five Stars: “Ero convinto – disse Grillo –
che Rodotà, amico di Prodi, si ritirasse. Invece mi disse chiaro e
tondo che se avessi voluto lui avrebbe fatto un passo indietro,
altrimenti, sarebbe andato avanti. A quel punto non potevo chiedergli
di ritirarsi”. Gli zozzoni non furono solo i 101 del Pd ma 115/120,
una folla.
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