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lunedì 5 agosto 2013

Berlusconi da Oscar. Con l'interpretazione di Silvio-Marlon, in via del Plebiscito si è sfiorata l'arte pura

Quanto scritto sul post di ieri non è andato mica tanto lontano da quello che poi è accaduto! Se si considera che anche il palco da dove il Cesare piagnucoloso ha lanciato il suo accorato appello al “perdono” non era autorizzato, tutto il resto può essere derubricato in una “querula dimostrazione di solidarietà” a opera di nostalgici della prima ora. Sembrava il compleanno di Mussolini festeggiato dai vecchi fasci sulla tomba di Predappio, con annesso Eia eia alalà e il braccio destro romanamente teso. Ma tant'è. Le bandiere di Forza Italia, mosse solo da un'afa da delirio, e quindi immobili, sono state il ritratto impietoso del berlusconismo ora, in attesa di qualcosa che arrivi da lontano, asserragliato in se stesso come il giapponese nella giungla dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quello che è salito sul palco (sempre non autorizzato) di via del Plebiscito, è sembrato un leader stanco, in procinto di lasciare lo scettro del comando nelle mani della principessa preferita, un combattente e reduce di mille battaglie che, un po' debilitato, un po' scoglionato, un po' deluso, ha arringato la folla dei supporter sapendo che, comunque, non è il numero dei berluscones che scendono in piazza a determinarne le fortune, ma gli imbelli (tra gli 8 e i 9 milioni) che ancora lo votano nel segreto della cabina elettorale. E il Capataz a quelli punta, agli irriducibili, mica agli ospiti di Villa Sorriso felici della gita, della canicola, dei gadget e della palpatina al culo della hostess. Certo però che Silvio è grande. Ieri ha messo in scena tutto il repertorio di navigato uomo dello spettacolo. A un provino con Martin Scorsese, lui risulterebbe sicuramente tra i primi perché è in possesso di una mobilità facciale, nonostante il tiraggio di mille lifting, che molti attori del nostro cinema e del nostro teatro si sognano di notte, dopo un'abbuffata di trippa alla romana. Ha iniziato il suo discorso con l'aria contrita di chi è stato beccato con le dita nel vasetto della marmellata. Ma poi, autosuggestionandosi, è passato dall'indignazione alla rabbia, dal vittimismo alla reattività adolescenziale, dalle minacce alle promesse, dal senso dello stato a quello per i soldi che, comunque vadano le cose, resta saldamente in testa agli interessi di Silvio. Ma il clou di una recitazione pressoché perfetta, è arrivato, come d'uso nel teatro drammatico, con la scena madre: le lacrime. Quando si commuove Silvio è inarrivabile. Tutti sanno che è solo una scena frutto di anni di frequentazioni di palcoscenici eppure, nonostante tutto, gli spettatori ci cascano come polli... o papere. Prima di arrivare alle lacrime, Silvio da fondo a tutti i pensieri foschi e tristi della sua vita. Ripassa velocemente le (poche) disgrazie che gli sono successe. A volte si perde, e non si può non notare. Le lacrime stentano ad uscire perché magari si è ricordato della vodka bevuta nell'ombelico di Natasha nella dacia di Vlady, e vorrebbe sorridere. Ma si ripiglia subito, ripensando a quando il suo compagno di scuola non gli ha pagato il compito di fisica o a quando la sua fidanzatina non gliela data preferendogli il primo della classe vero, quello con gli occhiali che facevano tanto intellettuale di sinistra: maledetti comunisti. E allora le lacrime, finalmente, sgorgano copiose cadendogli sul Caraceni di lino, fresco di stiratura, che Francesca gli ha fatto indossare perché fa tanto pendant con il pelo di Dudu. Ed è un piacere. Silvio che piange è un controsenso esistenziale, lo sa lui, lo sanno Bondi e Bonaiuti, lo sa Francesca, lo sa Daniela. Ma lui da fondo a tutte le sue doti di grandissimo attore e, con un Ne me quitte pas e un Paris Canaille, vorrebbe tanto dimostrare di avere un cuore. Ma è più forte di ogni tecnica di recitazione: non ce la fa. Questa mattina Alfano e Brunetta andranno dall'Innominabile a chiedergli una improbabile grazia. Forti del precedente Sallusti, ci vogliono provare. Se l'Inquilino del Colle più Alto della Repubblica dovesse dire di sì, la guerra civile scoppierebbe inevitabile. Con tanto di forconi e di trattori-aratori. E allora, altro che lacrime!

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