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mercoledì 3 maggio 2017

Cornetto&Cappuccino. Il diritto di vivere e il diritto di morire


Il diritto di vivere e il diritto di morire

Se c'è un termine che si porta appresso una serie di considerazioni mai banali e mai scontate, è “dignità”. Vale in ogni campo, in ogni mestiere, in ogni atto della nostra quotidianità. La stiamo dimenticando, in molti hanno cominciato a considerarla un optional, un orpello, a volte un peso, altri non l'hanno mai presa in considerazione lasciando che la vita scorresse esattamente come fa, senza appesantirla con inutili arzigogoli morali. Infatti oggi si parla spesso di indegnità ma sempre meno di dignità, come se l'una non fosse la diretta conseguenza dell'altra.
L'indegnità, il comportamento non dignitoso, è motivo di esclusione dagli ordini professionali ma anche una delle ragioni per le quali si finisce in gattabuia. Ne sanno qualcosa i medici, gli avvocati, i notai, gli ingegneri, i giornalisti che quando vengono radiati dai rispettivi Albi, lo sono essenzialmente per “indegnità”, cioè l'essere andati contro i principi deontologici fondamentali della professione. Per un medico, uccidere un essere umano invece che salvarlo, è un atto indegno; per un giornalista, mentire lo è altrettanto. E qui potremmo aprire una discussione che si sa quando inizia ma difficilmente se ne vedrebbe la fine.
Anche noi, come molti, moltissimi abitanti di questo pianeta, abbiamo avuto in famiglia o fra gli amici, casi di malati terminali. Di persone che arrivate a un certo punto della loro esistenza, da esseri umani pensanti e brillanti, si sono trasformati in vegetali tenuti in vita da una flebo o da una macchina. 
Vorremmo chiedere ai fautori della “vita a ogni costo”, se si sono mai imbattuti nello sguardo del malato con ormai più nulla di umano, se hanno mai osservato attentamente la patina liquida che ne offuscava gli occhi e ne impediva qualsiasi visione altra. L'immobilità che contraddistingue i “morenti” è una cosa diversa da qualsiasi altra immobilità da gamba fratturata o da sonno profondo, perché è quella di un corpo che se ne sta andando nonostante il cuore continui a tenerlo in vita. Il resto non c'è più ma un battito, per quanto flebile, continua a tenere in moto una macchina che va a un cilindro e un cervello che smette di procurare emozioni e gioie ma che ha ben chiaro il concetto di dolore. In questi casi la religiosità di ciascuno di noi c'entra poco, mentre c'entra, fino a diventare un assunto lapalissiano, la dignità.
È quanto hanno deciso i pm del Tribunale di Milano pronunciandosi sull'autodenuncia di Marco Cappato per aver accompagnato DJ Fabo in Svizzera a morire.
Le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduino nell'ordinanza di 15 pagine di archiviazione del caso, dopo aver ripercorso con una puntigliosità scientifica il cammino nel dolore di DJ Fabo dopo l'incidente, hanno concluso scrivendo: “Non pare peregrino affermare che la giurisprudenza anche di rango costituzionale e sovranazionale, ha inteso affiancare al principio del diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell'umana dignità”. In poche parole, le pm hanno detto che il diritto alla vita va bilanciato con il diritto alla dignità. Questo è uno di quei casi, in cui la “dignità”, per quello che è, per il valore immenso che implica, trova il suo sbocco logico perché privare un essere umano della sua dignità è peggio che ucciderlo. Da sempre, anche se i fatti ci stanno dando torto, facciamo il tifo per l'intelligenza dell'uomo. Limitarne le scelte significa offenderlo e togliergli l'unico vero diritto rimasto, quello all'autodeterminazione.


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